Nelle aree più povere del mondo Il lavoro minorile, infatti, costituisce una sorta di compensazione del reddito familiare a cui sovente si ricorre in situazioni di difficoltà; ma esso non può essere, in nessun modo, considerato la risposta alla fame e alla miseria. Uno sfruttamento che priva i bambini della loro infanzia, della loro dignità e influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico e non solo.
L’Unicef stima che oltre 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni siano coinvolti nel lavoro minorile, per tale ragione chiede un maggiore impegno al fine di eliminare qualsiasi forma di sfruttamento del mondo dell’infanzia.
In alcuni dei Paesi più poveri del mondo un bambino su quattro è intrappolato in una vita di totale privazione del Diritto: l’Africa subsahariana è al primo posto. L’Africa, però, non è il solo continente ad essere coinvolto in quest’orrore che non si arresta e che, anzi, peggiora. L’Asia, la regione del Pacifico, l’America latina e i Caraibi sono solo alcune delle aree nelle quali il fenomeno dilaga. In quei luoghi i bambini vengono impiegati in varie forme di lavoro rischioso, a contatto con sostanze chimiche e pesticidi agricoli o con macchinari pericolosi.
Tra le peggiori forme di lavoro minorile rientra anche il lavoro di strada. Nelle metropoli asiatiche, latino-americane e africane, sempre più spesso, i bambini vengono impiegati per raccogliere rifiuti da riciclare. Un’altra forma di schiavitù orribile è la violenza sui bambini per fini commerciali e sessuali.
Il nostro Paese non è ancora del tutto scevro da una simile problematica e il suo passato non è esente da qualche macchia di vergogna. Lo scrittore, Giovanni Verga, attraverso Rosso Malpelo denunciò la povertà e lo sfruttamento minorile negli anni in cui il Regno d’Italia si era da poco formato. E non erano i tempi di un lontano Medioevo, bensì quelli a cui stava per schiudersi il Novecento.
Da troppe parti, ancora oggi, si affronta la questione con un approccio non adeguato e, in qualche caso, con un distacco prossimo alla indifferenza. Certo, la civiltà del progresso appare ben lungi dalle miniere dei tanti Malpelo, dalle favelas brasiliane, dalle metropoli asiatiche, latino-americane e africane, ma per quanto assorti dalle nostre inquietudini, ahinoi moltiplicatesi nel corso di questi durissimi mesi, tutti dovremmo saper tener desto, almeno, un sentimento di indignazione. Farebbe da pungolo alla umana compassione e, per quanto probabilmente inascoltato, sarebbe un forte richiamo a quelle coscienze troppo offuscate dai cinici calcoli del profitto e del potere globale.
di Tony Ardito