Facciamo un conto alla “carlona” con riferimento ai soli provvedimenti resi in costanza di emergenza pandemica: il decreto “Cura Italia” del 17 marzo prevede 30 decreti attuativi, ne mancano ancora 19; per il decreto “Liquidità” dell’8 aprile restano da predisporre ancora 8 decreti su 12; per il decreto “Rilancio” del 19 maggio mancano all’appello ben 77 decreti su 103 (la fonte è il “Quotidiano del Sud”). E’ evidente che, finita l’emergenza da Covid19, non vi sarà probabilmente bisogno di alcun decreto, con la conseguenza che quei provvedimenti, pubblicizzati con conferenze stampa urbi et orbi, resteranno inattuati.
Per il decreto Semplificazioni vi è un ulteriore problema, di non poco momento, ovvero la necessità di riformulare il reato di “abuso d’ufficio”, da cui – in parte – dipendono i ritardi e le inefficienze della pubblica amministrazione, posto che nessun amministratore pubblico vuole correre il rischio di essere attratto nel vortice di vicende ed indagini giudiziarie che durano all’infinito nell’italica repubblica giudiziaria.
Dalle indiscrezioni giornalistiche è emerso che una prima formulazione della norma disegnava il reato come “violazione di regole di condotta specificamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, dalle quali non residuino margini di discrezionalità per il pubblico funzionario”. Contro questa formulazione si è subito scatenato il pandemonio dei pubblici ministeri, che hanno tuonato contro una presunta abrogazione (di fatto) del reato.
Di conseguenza, prono al volere di chi proprio non potrebbe proferir parola (in considerazione di quanto sta venendo alla luce con riferimento alle vicende del dott. Palamara), il Governo ha subito previsto un correttivo ampliando la definizione del reato con “la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge e dai regolamenti”, in tal modo ammettendo un’interpretazione assai ampia – che non si dubita verrà fatta propria dalle varie Procure – che consentirebbe di punire l’inosservanza di regole di condotta puramente formali o di tipo procedurale.
In questo modo, probabilmente, il tentativo di ovviare al male risulta peggiore del male stesso. Si continuerà a sindacare penalmente non la corruzione, ma la discrezionalità amministrativa, sulla scorta di vaghi principi generali, quali il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Del resto, il Paese è abituato ad assistere a decine di migliaia di processi per abuso d’ufficio, finiti nel nulla e con costi aggiuntivi per le difese degli indagati a carico delle pubbliche amministrazioni ovvero di noi tutti (ne dava conto Mattia Feltri su “La Stampa”, con un fondo graffiante ed interessante).
Anticipo subito le obiezioni dei cultori del sospetto e del pangiustizialismo: in un’ Italia così corrotta come si può pensare di eliminare un reato come l’abuso d’ufficio ? gli ingenui, però, non tengono conto che il fenomeno corruttivo non passa affatto tramite un abuso d’ufficio, richiedendo condotte più specifiche, che naturalmente vanno sempre represse.
Ma cosi è !!! In un bell’articolo su “Il Foglio” un grande giurista, come Giovanni Fiandanca, e un esperto commentatore, come Andrea Merlo, ricordano un’importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che, annullando una condanna comminata per abuso d’ufficio, statuisce che la pubblica accusa non deve strumentalizzare le leggi e la giurisdizione per imporre standard di moralità o canoni di buon governo, ma deve porsi l’obiettivo di verificare scrupolosamente (ed ora aggiungerei, con imparzialità e indipendenza, lette le cronache di questi giorni) la sussistenza di elementi costitutivi di reato. Ma, forse, questo è pretendere troppo in Italia !!
Giuseppe Fauceglia