Niente più madrine e padrini, insomma, perché, dice il vescovo, «pur essendo brave persone, non hanno piena consapevolezza del ruolo a cui sono chiamati». Una generalizzazione, certo, che vale per molti, ma non per tutti, ma che spesso ha trasformato queste figure in comparse, «una sorta di adempimento formale, in cui rimane ben poco visibile la dimensione della fede – scrive Fusco – la scelta viene compiuta abitualmente con criteri e finalità diverse (relazione di parentela, di amicizia, di interesse), senza considerare lo specifico ruolo che il padrino o la madrina è chiamato a svolgere ovvero quello di trasmettere la fede che deve vivere in prima persona per poi poterla testimoniare. Inoltre – si legge nel decreto -, le situazioni complesse di tante persone proposte per assolvere questo compito rende la questione ancor più delicata».
Insomma sull’altare a garantire una vita da buon cristiano, ci sono spesso persone che non danno il buon esempio nella vita reale: divorziati e non praticanti che, secondo il vescovo, non possono essere modelli e che non rispondono ai criteri previsti per assolvere a questo impegno:
«Persona matura nella fede, rappresentativa della comunità, approvata dal parroco – si legge ancora nel decreto emanato ieri che richiama una nota pastorale della Cei del 2003 -, capace di accompagnare il candidato nel cammino verso i sacramenti e di seguirlo, nel resto della vita, con il sostegno e l’esempio».
La decisione del vescovo è stata a lungo discussa con i sacerdoti e i catechisti: una scelta coraggioso e di coerenza destinata a creare molti malumori, ma forse, chissà, a ridare il senso e il valore alle cose, a partire da quelle spirituali che troppo spesso vengono vissute senza consapevolezza di quello che si sta facendo. Ora inizia per i parroci la parte più difficile: spiegare ai fedeli, ma non troppo, il perché di questa rivoluzione della tradizione.