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Il groviglio europeo (di Cosimo Risi)

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Nei lontani Cinquanta del XX secolo Jean Monnet elaborò un documento pacificatore, una volta e per sempre, fra Francia e Germania. Lo sottopose a Robert Schuman. Questi lo integrò e lo portò all’approvazione del Gabinetto francese. Con il via libera dei colleghi, lo mandò a Konrad Adenauer. Questi dichiarò che l’Europa era il suo destino, di conseguenza qualsiasi passo verso l’integrazione era benvenuto nella Germania allora Ovest. L’indomani Schuman rese pubblica la Dichiarazione che avrebbe preso il suo nome.

A confronto, la rifondazione dell’Unione nei giorni della pandemia è opera dolorosa e lenta. La spaccatura riguarda uno stato membro fondatore, i Paesi Bassi, rispetto ai cinque altri fondatori. I Paesi Bassi possono contare sulla pattuglia dei frugali, tutti membri aggiunti nel corso dei decenni (Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia). Si scontrano con la new entry, l’Ungheria, che qualcosa ha da farsi perdonare circa il rispetto dell’acquis e perciò si fa zelante portavoce dell’europeismo della solidarietà.

Il quadro è così confuso a Bruxelles che darne conto con chiarezza è impossibile. E d’altronde scriviamo con il vertice ancora in corso. Di sicuro non è uno scontro fra visioni – per semplificare: più o meno Europa.   E’ uno scontro di interessi elettorali, legittimi quanto si voglia, ma pur sempre di corto respiro.

Il negoziatore occulto al tavolo è il populismo sovranista, il fantasma che, al pari di quello evocato da Marx e Engels nel Manifesto, percorre le piazze mediatiche d’Europa e spaventa i poveri di spirito. Quelli che si oppongono alla deriva nazionalista con un tocco di buonsenso nazionalista. L’interesse domestico innanzitutto. Se poi la casa comune si scuote fino al rischio di crollare, poco importa. Conta salvare la propria maggioranza.

C’è da chiedersi quanto rischiò Adenauer nell’appoggiare il piano francese. E quanto rischiò Schuman per superare di slancio il mezzo secolo di due guerre mondiali e la consegna delle chiavi della storia  a Stati Uniti e Unione Sovietica.

Le chiavi ora hanno un altro proprietario:  la Cina. Nessuno dei tre Grandi è disposto a condividere il doppione con l’Europa, né questa ambisce ad averlo. La chiusura nell’orizzonte nazionale, che si gabella per patriottismo, è il principio della fine dell’integrazione europea.

La responsabilità è comune a tutti gli stati membri. Anche a quelli che oggi siedono al lato giusto del tavolo. Se i postulanti avessero esaurito i compiti a casa,  avrebbero diritto a fare la voce grossa, senza cedere al piccolo cabotaggio della progressiva riduzione degli aiuti. Se il paese più importante, invece di pensare solo all’attivo della bilancia dei pagamenti, avesse per tempo preso per mano i paesi più deboli dalla crisi greca in poi, avrebbe le carte in regola per imporre una leadership illuminata.

L’ottimismo spinge a credere nel compromesso finale. Sarà un rattoppo con qualche filo appeso. Da domani dovremo riprendere a tessere la tela: a Bruxelles e soprattutto nelle singole capitali.

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