“Sono trascorsi dieci anni ha quando sono venuto qui la prima volta e devo dire che ho riscontrato la stessa determinazione e la stessa passione. A parte il distanziamento imposto dall’emergenza sanitaria, il cuore pulsante del festival non è cambiato. Il messaggio più contagioso che viviamo in questa edizione – ha chiarito – è l’amore per la vita in un momento storico che invece ci abitua alla morte. In questo senso Giffoni è unico, perché è capace di mettere insieme giovani appassionati di cinema che possono incontrarsi e confrontarsi. Ho avuto modo di vedere il documentario realizzato per il cinquantennale. Mi ha colpito, tra le tante, la testimonianza di Wim Wenders. Il fatto che venendo qui ha ritrovato il bambino che è in lui. Questo rispecchia molto la dimensione pedagogica del festival. Vedendolo si capisce che il cinema è l’occasione per rilanciare argomenti più complessi. È un’opportunità che consente ai ragazzi di conoscere la varietà del mondo e che fa loro amare la vita. Conservare lo stupore dell’infanzia è fondamentale. I giovani non sono vasi vuoti da riempire con il nostro sapere. Questo è il luogo per eccellenza dove viene sfatato un luogo comune su una gioventù non curiosa e non attenta. A Giffoni è rappresentato il suo lato migliore”.
Sul film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio, glissa con ironia: “Ne so quanto voi. Dovesse chiamarmi all’ultimo momento mi faccio trovare pronto avendo già fatto cinque film con lui”. Su Qui rido io di Mario Martone, in cui veste i panni del grande attore e commediografo Eduardo Scarpetta, si limita a dire che “le riprese sono terminate il 30 luglio. Io e Mario siamo legati da un antico rapporto di stima e di amicizia”, mentre annuncia che a novembre inizieranno le riprese di Dall’interno, il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo, celebre tra gli appassionati di documentari, che lo vedrà insieme ad Alba Rohrwacher e a Silvio Orlando: “È una sfida che noi che amiamo il suo cinema accettiamo con piacere”.
Tantissime le curiosità dei giffoner sul mestiere di attore: “Tutti i personaggi sono difficili. Lo sono ancora di più quelli ispirati alla realtà perché il pubblico nutre delle aspettative. Ai ragazzi che vogliono intraprendere questa carriera direi: ci vuole impegno, sacrificio e dedizione. Non è una porta facile per il successo”. Innamoratosi giovanissimo delle icone della nouvelle vague, prima di scoprire il cinema americano, e dopo una lunga “militanza” tra i film di Bergman visti ai tempi dell’oratorio, Servillo ha raccontato della sua passione per la parola scritta e la letteratura, tappa fondamentale nella sua formazione di attore. “Grazie a Truffaut ho scoperto Balzac. Se ci fossero più film con riferimenti alla letteratura forse i giovani potrebbero appassionarsi, ma ogni generazione ha le sue specificità”.
Durante l’incontro nella sala blu della Multimedia valley, inoltre, Servillo ha parlato di Marco D’Amore. “Ho visto Marco fare esattamente quello che facevo io quando ero parte della compagnia di Leo de Berardinis, che rappresentava per me un riferimento assoluto per il teatro. Non c’era replica in cui non fossi dietro le quinte a vedere cosa facesse. E Marco ha fatto lo stesso. Quando ci siamo trovati in uno spettacolo complesso, La trilogia della villeggiatura di Goldoni, durante una tournée di ben 394 date è capitato che qualche attore si ammalasse e Marco ha sostituito perfettamente quattro attori su diciassette conoscendo il ruolo di tutti gli altri. È un attore dotato di un talento, ma da solo il talento non basta. Il suo è un talento governato dall’intelligenza, dote che ti orienta nelle strategie e lavorativamente parlando ti insegna a dire molti no e pochi sì. Credo molto nei giovani. In Elvira, lezioni teatrali di Louis Jouvet, un testo sul rapporto tra allievi e maestri, c’è una bravissima Anna Della Rosa, che prima si trovava in un felice limbo dell’anonimato. Chi cresce con te professionalmente tende ad assorbire i tuoi pregi e i tuoi difetti, l’importante è che prima o poi si affranchi e prenda la sua strada”.
Tra i volti più interessanti del cinema, Servillo cita Alessandro Borghi e Luca Marinelli: “Faranno molto nei prossimi venticinque anni” e plaude al rinascimento del cinema napoletano, mai così fertile come in questo periodo. “A Napoli si stanno facendo tante cose, Sorrentino, Martone, Andò, De Angelis. E se vogliamo anche le vittorie a Cannes di Gomorra e de Il divo sono targate Napoli”. Il primo amore però non è il cinema, ma il teatro: “Come diceva Artaud deve essere contagioso. Dovrebbe raccontare un sentimento in una maniera nuova, alla quale non avevi mai pensato prima. Credo che le emozioni dal vivo siamo irripetibili. La forza del teatro è la sua libertà, ma è anche una trappola dalla quale non puoi scappare se non riesce a coinvolgere quel pubblico che Shakesperare in Antonio e Cleopatra battezza il mostro dalle mille teste. Il teatro è poesia”.
Si definisce attore italiano di lingua napoletana, perché, ricorda, “ogni parola di questo dialetto è uno scrigno e racchiude almeno dieci significati diversi. La lingua napoletana è la lingua dell’esperienza, quella che detta il comportamento”. Quella delle radici: “Se dovessi tornare indietro con la memoria, ripenso ad Afragola. A settembre. Mi piacerebbe rivivere quella sensazione di me bambino circondato da un gineceo di nonne, zie, cugine, tutte bellissime, che cantavano e chiacchieravano mentre facevano le bottiglie di pomodoro. Era come trovarsi nel Campiello di Goldoni, un teatro di assonanze e di rimandi. Vivevo in una palazzina nell’unica strada asfaltata del paese, la cosiddetta “a via liscia” che è un po’ il mio paradiso perduto, la mia isola di Arturo dove vorrei tornare”.
Prima di ricevere il premio, tra i sorrisi e gli applausi dei ragazzi, Servillo ha lasciato il palco ad Angelo Curti, produttore e compagno di studi di Martone con cui fonda negli anni Settanta la compagnia teatrale Falso movimento a cui si aggregherà poi Servillo con la sua compagnia, dando luogo a Teatri Uniti. “Quelli di Falso movimento erano anni straordinari – ha raccontato Curti – L’Università di Salerno all’epoca era una sorta di Atene attraversata da menti brillanti come Rino Mele, Achille Mango, Angelo Trimarco, Gioacchino Lanza Tomasi”. Un periodo di fermento, di idee e di progetti. Come quelli che oggi più che mai tengono vivo il festival di Giffoni.