A coordinarlo un team di scienziati del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione presso l’IRCCS Neuromed di Pozzilli, Isernia, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Mediterranea Cardiocentro di Napoli; dell’Unità di Immunodeficienze Virali dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma; dell’Istituto Humanitas di Milano e di numerosi altri centri di ricerca.
I risultati della ricerca italiana, tenendo presenti tutti i limiti di uno studio di osservazione che non rileva rapporti di causa-effetto, si inseriscono nel calderone di indagini svolte durante la pandemia che hanno coinvolto l’idrossiclorochina, un antimalarico derivato dalla clorochina sintetizzato per la prima volta cinquanta anni fa, aggiungendo un gruppo idrossilico al composto originale.
Sono trascorsi più di otto mesi dalla comparsa dei primi casi di “polmonite misteriosa” a Wuhan, dove la pandemia di SARS-CoV-2 ha avuto inizio, e ad oggi non esiste ancora una cura specifica contro la COVID-19. Tra la pletora di protocolli sperimentali basati su farmaci somministrati in uso compassionevole e off label, cioè fuori etichetta, il più discusso coinvolge proprio l’idrossiclorochina, che è passata da potenziale “cura miracolosa” a essere additata come rischiosa per la salute, a causa di potenziali complicazioni a livello cardiaco.
Ciò ha determinato il ritiro di alcuni studi e un aspro confronto fra esperti e istituzioni andato avanti per mesi, mentre ora si è in attesa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità si pronunci in modo definitivo sulla sicurezza e l’efficacia del medicinale. Del resto, anche l’OMS stessa aveva sospeso precauzionalmente l’uso dell’idrossiclorochina nei trial clinici, sulla scorta dei risultati di uno studio poi ritirato, per poi tornare sui propri passi.
È in questo turbinio di ricerche – spesso dagli esiti diametralmente opposti – che si inserisce il nuovo studio di osservazione svolto in Italia, in grado di cambiare di nuovo le carte in tavola in favore dell’antimalarico. L’idrossiclorochina è approvata per combattere patologie autoimmuni come artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico, e proprio per questo è ritenuta promettente contro la COVID-19, tra le cui complicanze vi è una risposta immunitaria esagerata che determina la cosiddetta tempesta di citochine.
Dei 3.451 pazienti con COVID-19 coinvolti nello studio italiano, il 76,3 percento è stato trattato col farmaco. I tassi di mortalità, valutati per mille persone al giorno, sono stati rispettivamente dell’8,9 e del 15,7 per chi riceveva o meno l’idrossiclorochina. Aggiustando i dati tenendo in considerazione molteplici fattori, gli scienziati sono giunti alla conclusione che chi veniva trattato con l’antimalarico aveva un rischio di mortalità ridotto del 30 percento.
“Abbiamo potuto osservare che, a parità di condizioni, i pazienti ai quali è stata somministrata idrossiclorochina hanno avuto un tasso di mortalità intraospedaliera inferiore del 30% rispetto a quelli che non avevano ricevuto il trattamento”, ha dichiarato all’ANSA Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo dell’istituto Neuromed e coautore dello studio.
“In questi mesi l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha raccomandato uno stop all’ utilizzo dell’idrossiclorochina sulla base di uno studio osservazionale internazionale, successivamente ritirato dagli stessi autori della ricerca. Ora i dati dello studio, derivanti dalla collaborazione nazionale, potranno aiutare le Autorità competenti a meglio chiarire il ruolo dell’idrossiclorochina nel trattamento di questi pazienti”, gli ha fatto eco il presidente di Neuromed Giovanni de Gaetano.
I dettagli della ricerca “Use of hydroxychloroquine in hospitalised COVID-19 patients is associated with reduced mortality: Findings from the observational multicentre Italian CORIST study” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica European Journal of Internal Medicine.
Fonte: scienze.fanpage.it