In questo modo, non solo è stata definitivamente perduta quell’idea di “comunità” che era stata alla base del clima che ha caratterizzato il Paese tra il febbraio e il maggio scorsi, ma si è sviluppata una ideologia dell’egoismo capace di incidere sui rapporti familiari e non.
Questi giovani e meno giovani che, disinteressandosi della loro salute e quella dei loro familiari, hanno affollato con incoscienza le strade e le piazze, sono stati capaci di manifestare plasticamente che un “Aperol Soda” con gli amici è più importante della salute dei loro genitori o loro nonni. L’ossessività della ricerca del proprio benessere finisce per rompere gli argini della consapevolezza di essere “comunità”.
Sarebbe ingiusto, però, attribuire solo a questa cultura del narcisismo e della “solitudine” il potere distruttivo dell’idea di “comunità”, che pare rilevarsi nella seconda ondata del virus.
Responsabilità evidenti, che rendono l’individuo ancora più solo di fronte all’impatto devastante del virus, sono da attribuire al Governo centrale e alla Regioni: chi ha il difficile compito di guidare un Paese dovrebbe evitare ogni scelta, ogni parola di troppo che serva ad accrescere, anziché di sminuire, l’incertezza e, dunque, a rendere più percepibile il senso di solitudine del cittadino.
Abbiamo, in queste settimane, assistito ad un altrettanto pericoloso narcisismo istituzionale: politici che pur di accrescere il loro consenso hanno contraddetto se stessi in poche ore; fenomeni da baraccone mediatico che diventano i baluardi contro il virus; medici e virologi che non solo si contraddicono violentemente tra di loro, ma finiscono ogni giorno per contraddire le loro stesse opinioni. Tutto questo in uno scaricabarile della coscienza, che si sviluppa nella litigiosità arricchita dalle differenze cromatiche cui siamo, ormai, rassegnati.
Giuseppe Fauceglia