Il suo caso sta facendo riflettere perché potrebbe essere assimilabile ad alcuni casi di reinfezione, anche se finora si tratta di circostanze documentate molto raramente, in parte perché per avere certezza che si tratti di reinfezione servirebbe un’analisi genetica del virus che causa la prima infezione e un’ulteriore analisi al manifestarsi della seconda malattia per capire se la nuova manifestazione è causata da un ceppo diverso oppure mutato.
Esami che nella realtà è difficile svolgere e che solitamente vengono effettuati nell’ambito di studi scientifici. Ad ogni modo, la notizia del nuovo caso registrato nel Lazio riporta in primo piano la questione, fornendo alcuni spunti per capire quando è possibile parlare di reinfezione e quando di ricaduta.
Il caso di una 25enne romana
“Ho iniziato a stare poco bene a metà ottobre – racconta la giovane all’Ansa – ma il primo tampone rapido il 13 ottobre era negativo. Dato che continuavo a stare male ho fatto un secondo tampone molecolare al drive-in di Fiumicino il 20 ottobre ed è risultato positivo”. I sintomi comprendevano un dolore fortissimo ai muscoli, con febbricola, fino a difficoltà respiratorie piuttosto pesanti, per cui non si è però reso necessario il ricovero in ospedale e la paziente è stata seguita sempre in casa dal suo medico di base.
Il 30 ottobre si è sottoposta a un nuovo tampone molecolare all’ospedale Sant’Andrea risultato negativo. E il 13 novembre è arrivato il secondo tampone negativo, al drive-in di Santa Maria della Pietà. Negli ultimi giorni, però, il padre si è ammalato di Covid-19, apparentemente a causa di un focolaio sul posto di lavoro, motivo per cui, “per precauzione – dice la ragazza – in famiglia abbiamo fatto tutti il tampone: sono risultata nuovamente positiva al molecolare, ho avuto febbre a 38 e mezzo e ora ho di nuovo dolori ai muscoli”.
Seconda infezione o ricaduta?
La vicenda, come riportata nell’agenzia, non permette in realtà di parlare di reinfezione o di escludere che si tratti di una ricaduta. In primis per la mancanza, come detto, di analisi genetiche volte a comprendere eventuali differenze tra i virus che hanno causato l’infezione (sappiamo infatti che in circolazione esistono diversi ceppi di coronavirus Sars-Cov-2 e che in alcuni casi è possibile un secondo contagio).
D’altra parte perché un’eventuale reinfezione, che potrebbe essere spiegata attraverso lo sviluppo e la durata dell’immunità in seguito alla prima infezione, nel caso della giovane romana non è verificata da analisi specifiche di immunoglobuline e linfociti. Uno studio recentemente pubblicato su Nature ha infatti chiarito l’importanza della risposta umorale (anticorpi) e dalla risposta cellulo-mediata (linfociti T) nell’infezione da coronavirus, indicando che la protezione mediata dagli anticorpi dipende dalla loro concentrazione e che i linfociti T sono necessari se i livelli di anticorpi sono insufficienti.
Nel caso della 25enne, la sola informazione disponibile è quella relativa alla ricomparsa di sintomi dopo circa un mese dalla remissione. Dunque un intervallo di tempo particolarmente ristretto e che, in assenza di altri dati, può suggerire una ricaduta come quella che ad esempio può verificarsi in seguito a un’influenza, quando crediamo di essere guariti e, invece, a distanza di pochissimo tempo siamo nuovamente costretti a letto.
Il tampone rapido “negativo”
Quanto invece al risultato negativo al primo tampone antigenico (“Il 13 ottobre era negativo”) non è chiaro quale sia l’esatto lasso di tempo trascorso tra il giorno del sospetto contagio e il test, né se la decisione di effettuare il controllo sia stata dovuta alla comparsa di sintomi oppure ad uno scrupolo, dal momento che la ragazza riporta solo di non essere stata bene da metà ottobre, verosimilmente alcuni giorni dopo il test.
Questo aspetto, indipendentemente da sensibilità e specificità dei tamponi rapidi che, in ogni caso, dovrebbero essere utilizzati per screening di popolazione e non per diagnosi di Covid, è essenziale dal momento che, così come il test molecolare, anche il test rapido può fallire se viene effettuato subito dopo il sospetto contagio.
In altre parole, la carica virale potrebbe essere ancora troppo bassa e non sufficiente da poter essere rilevata, vanificando dunque l’efficacia del test. Una delle raccomandazioni riguardo ai tamponi è infatti quella di attendere circa una settimana (dai cinque ai sette giorni dall’esposizione ) prima di sottoporsi al controllo, e se il primo test risulta negativo, vale la pena ripeterlo circa 12 giorni dopo l’evento iniziale per scongiurare la possibilità che l’infezione abbia impiegato più tempo a manifestarsi.
Fonte: Fanpage.it