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La tecno-dittatura della stupidità (di Giuseppe Fauceglia)

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Sembra che tutti abbiano gettato la spugna, sconfitti dal presunto progresso inarrestabile ed incontrollabile delle tecnologie, che sconfigge ogni riflessione diversa dal comodo conformismo di massa.

E’ accaduto così anche per le riflessioni sull’impatto della pandemia sul sistema sanitario italiano. Questa crisi ci ha detto di cosa ha bisogno la nostra sanità:  della medicina territoriale e di base come diga prima dell’ospedale; di ambulatori efficienti ogni  15 mila abitanti dove trovare sempre medici, diagnostica di primo livello, assistenti sociali, consultori e centri di salute mentale; servirebbero circa 5.400 posti letto in strutture intermedie tra ospedali e abitazione, dove ricevere assistenza che non ha bisogno né di interventi chirurgici né di cure di alta specializzazione; di un’assistenza domiciliare reticolare per i malati cronici, soprattutto anziani.

E’ tutto quello che non c’è oppure che non ha funzionato in occasione dell’emergenza pandemica: con la conseguenza che ospedali, case di riposo e centri ambulatoriali delle ASL sono diventati e primi focolai dell’infezione.

Si tratta di interventi che richiedono investimenti per circa 25 miliardi di euro, spese necessarie che dovrebbero essere individuate nell’ambito del Piano Salute del MES o delle previsioni del Recovery Plan, ma ad oggi – nelle previsioni del Governo – vengono previsti interventi per soli 9 miliardi di euro.

Mi sembra che la consapevolezza di Governo e Regioni (forse, con la sola eccezione del Veneto) sulla grave situazione del nostro sistema sanitario sia ai minimi livelli, se non interessata alla sola gestione dei finanziamenti, con gli effetti dilapidatori, distorsivi, se non corruttivi, a tutti noti anche a seguito di inchieste e vicende penali.

Eppure, sarebbe sufficiente uno sguardo attento con altre esperienze: ad esempio, in Germania è presente non solo una struttura reticolare di medicina territoriale efficiente e responsabilizzata, ma ci sono all’incirca 4 medici  e 13 infermieri ogni mille abitanti. In Italia mancano proprio gli infermieri, anche quelli che si occupano del malato a casa e con frequenza quasi giornaliera: abbiamo 6 infermieri ogni mille abitanti.

I nostri giovani infermieri in questi anni sono stati costretti ad emigrare, ed ora lavorano con successo in Germania, nella Gran Bretagna e in altri Paesi (avrei un dubbio, però, che la loro bravura possa essere semplicemente trasferita in Italia, dove vince il principio del “posto fisso” del film di Checco Zalone !!).

Del resto, proprio un sistema sanitario inefficiente ha finito per creare ulteriori diseguaglianze: chi è povero rischia di ammalarsi di più e peserà in maniera più intensa su un sistema sanitario costoso e che non riesce a dare una risposta completa alla domanda di cure; mentre i più ricchi nei fatti si curano meglio.

Ad esempio, esaminando alcuni parametri più importanti, come funzionalità respiratoria, obesità, anemia, aritmia patologica, non valorizzati in un piano di prevenzione e di screening, si scopre che, in genere, i più abbienti hanno  fatto accesso al sistema sanitario, mentre questi fattori di rischio non sono stati presi in considerazione  da chi non è in grado di prendersi cura di sé per ragioni economiche o per scarsa disponibilità di tempo o per minori informazioni.

La conseguenza è che questi soggetti paradossalmente avranno poi bisogno di cure a medio e lungo termine più costose, all’insorgere delle patologie non diagnosticate in tempo.

Per riflettere sulle riforme del sistema sanitario non è necessario essere un medico, è, invece, richiesta una buona conoscenza dell’ordinamento, dell’economia sanitaria e della realtà delle nostre strutture (forse anche per diretta esperienza). Una riforma per “rivoltare il sistema come un calzino” non è facilmente accettata da chi quel calzino deve indossare !! Ciò non significa che i “medici” devono essere esclusi dal processo riformatore, ma solo che non ne sono attori esclusivi.

In ogni caso, le riforme serie in Italia restano un miraggio, se è vero che Esselunga, ad esempio, ha dovuto attendere ben 36 anni per aprire un supermercato  a Genova, imprigionata da una burocrazia irresponsabile che ha impedito assunzione di lavoratori e sviluppo delle imprese ausiliarie.

Ma così va l’Italia: tra ritardi ed inefficienze del sistema legislativo, burocrati che hanno paura di assumere responsabilità, sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali che si sostituiscono agli atti discrezionali della Pubblica Amministrazione, indagini e provvedimenti impeditivi dei giudici penali che durano decenni. Intanto  il Paese resta senza futuro, senza giovani e, soprattutto, senza speranza.

Giuseppe Fauceglia

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