Le relazioni internazionali tengono il fiato in sospeso, anch’esse scrutano i pronostici in attesa della stagione che si aprirà il 20 gennaio, con il giuramento del 46° Presidente degli Stati Uniti.
Dai segnali lanciati da Biden e dai suoi principali collaboratori – il Segretario di Stato, il Direttore CIA, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale – l’accento dovrebbe essere posto su alcuni punti: la riscoperta del multilateralismo efficace, il rinsaldamento delle alleanze con il fronte dei paesi democratici, il confronto diplomatico con le potenze autoritarie, l’attenzione alle aree in via di sviluppo.
L’agenda è ambiziosa e sconta che il Presidente sarà subito assorbito dal fronte interno. Unificare l’America dopo gli eccessi del predecessore sarà compito arduo. Ancora oggi parte dei Repubblicani grida a elezioni truccate e si fa interprete del malessere delle classi sacrificate dalla globalizzazione galoppante, avviata proprio dal predecessore democratico di Biden, quel Bill Clinton del trionfo della New Economy all’origine dell’attuale Web Economy.
La decisione di iniettare miliardi di dollari nel sistema mediante aiuti ai redditi più bassi risponde in parte alla politica repubblicana di “conservatorismo compassionevole”. Se la manovra in deficit servirà a ridurre le disuguaglianze, è difficile prevedere. Ad essa il Presidente accompagna lo slogan di politica commerciale “Buy American”.
E’ improbabile che la nuova Amministrazione smantelli subito il castello di restrizioni al commercio internazionale, specie con la Cina. Si parla di alleggerire le misure nei confronti degli alleati europei, esemplare sarebbe il cessare degli effetti extraterritoriali delle sanzioni all’Iran, nel quadro di una nuova politica nei confronti di quel paese.
A Teheran e in altre parti del Medio Oriente – Golfo, l’anno in corso vede importanti appuntamenti elettorali: le presidenziali, appunto, in Iran; le politiche, le quarte in due anni, in Israele; le politiche e le presidenziali in Palestina.
Queste ultime saranno le prime da quindici anni a questa parte, dopo che le votazioni del 2006 decretarono la vittoria di Hamas a Gaza e la conseguente separazione di fatto fra la Cisgiordania amministrata dall’Autorità Palestinese e la Striscia amministrata da Hamas. Non sono bastati tre lustri né le mediazioni dell’Egitto per risarcire la rottura fra i due blocchi. La Striscia resta un unicum territoriale e umanitario.
Di nuovo è la ricerca da parte del Likud di Netanyahu del consenso della popolazione araba d’Israele, circa il 20% del totale. La convergenza con i partiti arabi non è più condannata in partenza. Il comizio di Netanyahu a Nazareth, la più popolosa città araba del paese, è indicativo della svolta.
Il Premier cerca la conferma nei seggi e non bada alla sottigliezze: anche il voto arabo può servire alla causa. E così la vaccinazione di massa senza discriminazioni “etniche”. Oggi Israele è il paese a più alto tasso di vaccinazione al mondo.
I fatti del 6 gennaio gettano un’ombra sul modello americano di democrazia rappresentativa. Il proposito di Biden di convocare le assise dei paesi democratici, una sorta di G7 allargato alle potenze like minded di Asia, America Latina, Oceania, nasce con questo amaro retrogusto. La democrazia americana ha retto all’urto delle contestazioni di piazza, ma il vulnus c’è stato e si è avvertito ovunque.
L’Unione europea deve adattarsi alla nuova temperie. Lo fa sulla scorta di New Generation EU e nella ricerca della “autonomia strategica europea”. I contorni dell’autonomia non sono chiari, l’accordo con la Cina sugli investimenti sembrerebbe una passo non in linea con la politica americana.
Si tratta di capire cosa accadrà negli equilibri del Continente, ora che la parabola politica della sua principale leader si sta per esaurire. La domanda è: Armin Laschet succede a Angela Merkel alla presidenza della CDU e anche alla Cancelleria federale? A Berlino prevarrà la continuità con l’ultima incarnazione di Angela o il ritorno all’alterigia dell’austerità?
di Cosimo Risi
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