Egli nota che il lessico della politica italiana insiste sullo stilema della “poltrona”, intesa come occupazione abusiva del potere e suo mantenimento ultra vires. La poltrona, non importa se ergonomica dal design svedese o in pelle umana come quella del Megadirettore Galattico di Fantozzi, è il simbolo del potere: al pari dell’anello di Pietro e della valigetta coi codici nucleari.
A questo proposito: pare che Trump abbia portato la sua in Florida e che al successore ne sia stata data una copia, si spera che i codici alla prima siano stati disattivati, chissà che tra un colpo con la mazza da golf Donald non premesse qualche pulsante di troppo. Il Dottor Stranamore è in agguato.
Carofiglio sostiene che l’impegno politico è lotta per il potere, dunque per la poltrona dalla cui seduta il titolare può attuare i programmi che ritiene utili alla collettività. E’ nostro interesse che la poltrona sia confortevole, altrimenti le decisioni dei potenti vengono prese col mal di schiena per il generale nocumento.
Conquistare la poltrona con metodi democratici è giusto e legittimo, è l’essenza del gioco politico. Va lasciata al termine naturale del mandato o anche prima, in caso di dimissioni per incapacità ad assolverlo. Tenerla oltre ai limiti si precipita nella democratura, la democrazia autoritaria cara a certi regimi che non rientra nei codici europei.
Natalia Aspesi si compiace, per converso, della retorica di Joe Biden nel discorso inaugurale. Unità, religione, patria, pace, inclusione. Retorica progressista e di stampo cattolico, tale essendo la religione del Presidente di orgogliosa origine irlandese. Può sembrare superata, e non lo è, in un’epoca in cui certi principi fondanti del vivere civile stingono favore di altri, quali il primato bianco e l’imperativo “avanti i più ganzi”.
La giornalista nota il lugubre nero di certi esponenti di destra e la retorica della poltrona persino in bocca a chi avrebbe la cultura e la scaltrezza di Toscana per evitare il luogo comune. Il dolce stil novo fiorito a Firenze nel XIII secolo non scorre più nell’Arno. Discorsi dal fiato corto, complice la mascherina che ti fa respirare l’aria viziata, come il blocco del ricircolo del climatizzatore in auto quando sei incolonnato nel traffico.
Il linguaggio del potere è il linguaggio dei corpi e degli atteggiamenti. George W. Bush e Barack Obama, distesi e bipartisan insieme a Bill Clinton all’Inauguration Day, hanno in comune il giudizio su Vladimir Putin: uomo potente quanto permaloso, intento a lamentare i torti subiti dalla Russia per mano dell’Occidente e immemore di certe azioni russe non proprio in linea col diritto internazionale e le buone maniere. Con lui, sostengono ambedue gli ex Presidenti, era come “parlare con un liceale”, lunghi monologhi e scarno dialogo.
Il linguaggio politico oscilla fra le semplificazioni dei social, iterare le falsità le rende vere, e la gravità funesta nell’evocare sciagure. La parte costruttiva, dichiarare la verità dei fatti e impegnarsi sui problemi, va cercata nella linea intermedia che corre fra la semplificazione banale e il pessimismo cupo.
Joe Biden ha voluto circondarsi di cittadini variopinti per genere e formazione: un omaggio alla modernità d’America. Quale distanza da quello che il 6 gennaio irrompeva a Capitol Hill mascherato da Vichingo. Si dice che fosse un italo-americano: avrà preso esempio da quelli che si travestivano da Celti per abbeverarsi al Dio Po.
di Cosimo Risi
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