Più che un caso quello libico è un caos: dalla morte del Colonnello Qaddafi a oggi, un decennio ricordato da manifestazioni d’insofferenza ovunque, il paese è preda del continuo tormento di una guerra civile fra le regioni storiche di Tripolitania e Cirenaica, con gli annessi di milizie indigene e mercenari stranieri.
Il picco fu nell’avventura andata male del Generale Haftar, che da Bengasi tentò l’assalto a Tripoli. Haftar poteva contare sui mercenari russi, truppe appositamente camuffate per non fare risalire l’imputazione al Cremlino.
Il Primo Ministro Serraj aveva in soccorso le truppe turche farcite di fuorusciti siriani, nonché il Governo di Ankara in quanto tale che con lui aveva concluso un discusso accordo per le prospezioni marittime in acque contese da Cipro e Grecia.
Nel mezzo la missione europea IRINI, con il compito di monitorare il traffico di armi che giungeva ai contendenti malgrado l’embargo internazionale.
L’Italia è la prima a risentire del caos. Le imbarcazioni cariche di migranti salpano impunemente dalle coste libiche, prua verso Lampedusa e altri approdi siciliani. Salvo naufragare lungo la rotta e invocare il soccorso delle navi ONG e della Guardia Costiera. L’arrivo da noi provoca le conseguenze anche giudiziarie che conosciamo.
Al culmine del paradosso è l’addestramento della guardia costiera libica ad opera di istruttori turchi perché manovri le imbarcazioni fornite dall’Italia. In tal modo la Turchia si erge a guardiana delle rotte migratorie nel Mediterraneo orientale e nel Mediterraneo centrale. Il suo potere d’interdizione sulla politica europea è evidente.
Basta che Ankara minacci di aprire il rubinetto dei campi dove trattiene i migranti giunti via terra che gli stati membri limitrofi (Grecia, Bulgaria) e quelli di destinazione (Germania) tremino e cedano alle pretese. Ora esercita tale potere anche sulla pista marittima.
L’avvento dell’Amministrazione Biden è sullo sfondo dell’appeasement libico e della prudenza turca. Non che gli americani vogliano impegnarsi in Libia sul terreno, di certo il loro peso diplomatico induce le parti alla riflessione. E’ credibile la pressione di Washington su Ankara perché desista dall’assertività verso l’Europa, anche se resta aperta la questione dell’uso di armi russe nel sistema NATO.
Il Governo provvisorio libico è affidato a due personalità, il Primo Ministro Dbeibeh e il Presidente Al-Manfi, non appartenenti ad alcun preciso schieramento. Con linguaggio italiano li definiremmo tecnici prestati alla politica. Il pletorico Gabinetto è composto di Ministri di tutte le provenienze, ciascuno con l’impegno di non candidarsi alle prossime elezioni. Il che ne dovrebbe rafforzare il profilo terzo nella contesa politica.
La carica di Ministro della Difesa resta in capo al Primo Ministro. La sede del Governo andrà scelta con cura. L’investitura è avvenuta presso il Parlamento di Sirte, a metà strada fra Tripoli e Bengasi.
Tutto appare ben calibrato perché le varie fazioni si elidano a vicenda prima ancora di collaborare mutuamente. Occorre che i vari soggetti lascino lavorare il nuovo esecutivo e che i contingenti stranieri sgombrino il campo.
E’ un processo a alto rischio, una mano di poker con il rilancio libero. E’ un tentativo che va consumato nell’interesse generale. Il nostro riguarda le forniture degli idrocarburi e i flussi migratori. In Libia sarebbero presenti 584.000 migranti, per il 65% provenienti da Niger, Ciad, Egitto, Sudan. Parte di loro guarda a nord.
di Cosimo Risi
Commenta