Allo studio, cofinanziato dalla Fondazione Roma, hanno collaborato anche l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, l’Istituto Spallanzani e l’Università San Raffaele di Roma, insieme a diverse istituzioni americane (Harvard, Yale, Rockfeller, NIH, Mount Sinai, Boston University), canadesi (Università di Toronto) e francesi (INSERM Parigi, Hopital Avicenne).
I ricercatori hanno identificato una classe di enzimi (E3-ubiquitin ligasi) che servono al virus SarsCoV2 per uscire dalle cellule infettate e diffondersi a tutti i tessuti dell’organismo: questi enzimi sono espressi a livelli elevati nei polmoni dei pazienti Covid e in altri tessuti infettati dal virus. In un sottogruppo di pazienti gravi sono state identificate anche delle alterazioni genetiche rare che aumentano l’attività degli enzimi favorendo l’evasione del virus infettante.
Test in vitro hanno dimostrato che questo processo può essere bloccato con il composto I3C, che dunque si candida a essere usato come antivirale da solo o in combinazione con altre terapie.
“Dobbiamo testare il farmaco in studi clinici con pazienti Covid-19 per valutare rigorosamente se può prevenire la manifestazione di sintomi gravi e potenzialmente fatali”, sottolinea Novelli. “Avere opzioni per il trattamento, in particolare per i pazienti che non possono essere vaccinati, è di fondamentale importanza per salvare sempre più vite umane e contribuire a una migliore condizione e gestione della salute pubblica”.
“Dobbiamo pensare a lungo termine”, aggiunge Pandolfi. “I vaccini, pur essendo molto efficaci, potrebbero non esserlo più in futuro, perché il virus muta, e quindi è necessario disporre di più armi per combatterlo”. In futuro “sarà importante valutare se I3C possa anche ridurre le gravissime complicazioni cliniche che molti pazienti sperimentano dopo aver superato la fase acuta dell’infezione. Questo rappresenterà un grave problema negli anni a venire, che dovremo gestire”.
Ansa