Si leggono nello scritto riflessioni sulle politiche dell’istruzione e della ricerca universitaria, e si conferma la eclatante insufficienza dei finanziamenti pubblici, come ben rappresentato da Gianfranco Viesti su “Il Corriere della sera” del 22 marzo.
Si pensi che in Italia il finanziamento delle università risulta meno di 1/3 di quello francese e meno di 1/4 di quello tedesco. Fabrizio Barca introduce una questione, a mio avviso, importante: da una parte, critica le soluzioni che intendono premiare i cc.dd. atenei migliori (o tali ritenuti), concentrandovi la maggiore quantità delle risorse (nelle primissime posizioni in Italia meridionale vi è anche l’ateneo salernitano); dall’altra, propone una maggiore attenzione in favore delle cc.dd. università di periferia, per contrastare il fenomeno dello spopolamento e della povertà educativa e formativa.
Si tratta di un’opzione coraggiosa, ma coerente con la necessità di rendere la ricerca un veicolo per la trasformazione delle conoscenze specialistiche in “sapere collettivo”, un volano per la crescita culturale ed economica in territori marginali.
In questa prospettiva, l’Autore propone un utilizzo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per avviare una riforma strutturale del modello di finanziamento delle università, al fine di assicurare che il fondo ordinario, decisamente da incrementare, sia destinato ad assicurare le funzioni-base di una struttura universitaria policentrica e diffusa sul territorio.
A questo aggiungerei ulteriori riflessioni. I finanziamenti non possono più essere esclusivamente commisurati sul numero degli studenti che conseguono la laurea negli anni di studio previsti dagli ordinamenti, perché ciò ha comportato un progressivo abbassamento della verifica della preparazione in occasione degli esami di profitto.
Dappoi, una struttura universitaria diffusa sul territorio non deve portare al provincialismo o al localismo culturale, premiando interessi particolari, spesso non assistiti dal merito, a danno della necessaria apertura a studiosi esterni: insomma, non deve essere un’altra occasione per creare centri di poteri locali, chiusi ed affetti da irrimediabile deficienza cognitiva.
Intendo, però, porre un’ ulteriore questione: quella del rapporto tra università e istituzioni (politiche ed economiche) del territorio, che resta determinante non solo per garantire la missione di sviluppo delle zone svantaggiate, ma per assicurare il buon esito di progetti che richiedono la necessaria cooperazione tra soggetti pubblici e privati.
Voglio fare l’esempio del master biennale – chi conosce le caratteristiche di questa particolare modalità di formazione post-laurea ne comprende l’importanza e la complessità – che ho organizzato presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno.
Il master su “Imprese start-up e cooperative”, intende realizzare un progetto di formazione del personale e delle figure libero-professionali utilizzabili nell’ambito delle imprese mutualistiche e innovative.
I venti studenti ammessi hanno usufruito di borse di studio per coprire i costi dell’iscrizione (il costo del master è di euro 2.400 a persona, a fronte degli almeno 10.000 euro per master biennali che si svolgono presso altre sedi universitarie), messe a disposizione dalla BCC “Monte Pruno”, dalla BCC di Aquara, dalla BCC di Scafati e Cetara, dalla BCC dei Comuni Cilentani, dalla Banca Popolare Comuni Vesuviani, dalla Camera di Commercio di Salerno, e da altre società.
Non solo, ma si tratta di un master unico in Italia, organizzato grazie all’apporto e all’entusiasmo di ConfCooperative Salerno. Sono due anni che mi sono dedicato a questo progetto, coinvolgendo nelle lezioni alcuni dei più importanti studiosi della materia, in campo giuridico ed aziendalistico, oltre che esperti a forte caratterizzazione professionale.
Grazie alle docenze tenute a titolo assolutamente gratuito, siamo riusciti a “risparmiare” i fondi per un assegno di ricerca post-dottorato al fine di sviluppare studi approfonditi sui temi del master, e per mettere da parte una piccola borsa di studio per lo studente meglio classificato.
Vi è, però, che a fronte di questo immane sforzo, mio e degli stessi studenti partecipanti al master (tutti laureati in giurisprudenza e in economia), non ha corrisposto un impegno, altrettanto essenziale, delle strutture economiche e produttive locali, al fine di offrire almeno la possibilità di uno stage formativo e di valutare, dappoi, eventuali assunzioni oppure l’utilizzo in attività libero-professionali.
Questa è la dimostrazione più evidente che, in assenza di un forte intervento della politica (che è rimasta completamente assente, forse perché impossibilitata, per accertate deficienze valutative, a percepire la rilevanza dell’iniziativa) e delle imprese operanti sul territorio, non può crearsi il necessario circuito virtuoso tra utilizzo dei risultati della ricerca o della formazione e lo sviluppo del territorio nella prospettiva determinante del “sapere collettivo e diffuso”.
Giuseppe Fauceglia