La mancata consegna dell’elenco degli iscritti alla piattaforma Rousseau, saldamente nelle mani di Casaleggio, blocca la scelta del nuovo vertice del Movimento (cioè, il dapprima tanto osannato Giuseppe Conte), ma non viene neppure spiegata la ragione del “perché” un movimento politico, che si predica “aperto” e “trasparente”, non possa rendere noti i nomi degli iscritti, così come normalmente avviene per tutti i partiti politici, posto che l’adesione ne implica la manifestazione di una condivisione degli scopi, almeno “culturale”.
Ciò costituisce la tremenda originalità di una formazione che si dichiarava acefala, ma che in realtà è stata pilotata per anni, nelle votazioni sulla piattaforma, da una oligarchia con a capo Beppe Grillo.
Eppure debbo confessare che la provocazione di una democrazia aperta aveva suscitato in me un qualche interesse, a fronte della crisi evidente della c.d. componente liberale della democrazia, con un potere ormai concentrato nelle sole mani del Governo e l’influenza determinante del capitalismo finanziario sulle scelte dell’esecutivo.
Vi scorgevo l’opportunità di ridefinire i legami politici tra governati e governanti, per superare l’erosione del capitale di fiducia tra rappresentati e rappresentanti (ero rimasto affascinato dal libro di Jacques Chevallier, L’Etat post moderne, Paris. LGDJ, 2017).
La mia curiosità, poi, è stata di recente ancora sollecitata dall’interessante volume di Hélène Landemore, Open Democracy. Reinventing Popular Rule for the Twenty-First Century., Princeton University Press, che sviluppa una ricerca proprio sulle forme di democrazia non elettorale e sulle nuove modalità di partecipazione finalizzate a rendere ugualmente accessibile a tutti l’esercizio del “potere”, promuovendo il sorteggio del personale politico.
Se, però, esaminiamo l’ esito dell’esperienza grillina, dobbiamo necessariamente concludere che non solo il sistema proposto impedisce di acquisire capacità e competenze, che, invero, dovrebbero pre-esistere all’assunzione di cariche istituzionali (anche se l’esperienza concreta, specie italiana, smentisce clamorosamente l’assunto), ma soprattutto rileva che lo sviluppo collettivo di un progetto da parte di una moltitudine variegata di persone finisce, nella realtà dei fatti, per essere controllata da pochi.
Si corre il rischio di passare, cioè, da una democrazia, per quanto imperfetta, ad una oligarchia nascosta ed oscura. Il tasso di scolarizzazione o di istruzione e il ridotto livello di sviluppo di una vera coscienza sociale costituiscono ulteriori ostacoli.
Anche perché – come sapientemente nota Sabino Cassese – nell’ organizzazione statale non si tratta di prendere singole decisioni, ma di assicurare una complessa e continua attività di governo, che non può essere confinata in un incerto collettivismo acefalo. Il potere democratico deve restare, invece, sottoposto al controllo di organi che tra loro si bilanciano, al fine di impedire che la stessa autorità resti esercitata in modo incontrollato.
Siamo, però, costretti a notare che l’esperienza di questi ultimi decenni ha dimostrato che un “ordine” (così lo definisce la Costituzione), come quello giudiziario, ha finito per invadere il campo dei poteri costituzionali, generando una confusione di ruoli non spiegabili né giustificabili.
Giuseppe Fauceglia