Altre figure di giudici alquanto singolari per le modalità utilizzate al fine di pervenire alle loro “decisioni” sono amabilmente tratteggiate in letteratura. Basti pensare al giudice Azdak de “Il cerchio di gesso del Caucaso” di Bertold Brecht, che si trovò a sostituire, per caso, un altro giudice che era noto per rendere le proprie sentenze sedendosi sui codici e favorendo la parte “più ricca”.
Si tratta di esempi che, naturalmente, fanno sorridere, ma che il dibattito sulla giustizia digitale consente ora di richiamare, sia pure tenendo conto della finzione letteraria in cui sono inseriti questi precedenti.
Ormai sono numerosi gli scritti sulla c.d. giustizia digitale. Nella mia personale avversione per l’automatismo decisionale, ho potuto apprezzare il recente volume di Garapon e Lasségue, “La giustizia digitale”, edito da Il Mulino, 2021, e il bel saggio di Giuseppe Zaccaria, “Figure del giudicare: calcolabilità, precedente, decisione robotica, in Rivista di diritto civile, 2020, parte prima, 277. Le mie perplessità sugli algoritmi applicati alla giustizia trovano fondamento nella diversità tra la fase cognitiva e ricognitiva della controversia e quella decisoria.
Mi pare, cioè, che una giustizia che utilizzi questo metodo finisca “per guardare all’indietro” (come nota Oronzo Mazzotta ne “Il Sole 24 ore”) e finisca per privare qualsiasi forza innovativa e di adeguamento alla giurisprudenza a fronte della sempre mutevole realtà dei fatti.
Certo, si pone oggi un problema di prevedibilità delle decisioni, sempre più elusa da opzioni interpretative assai singolari e distoniche rispetto alla legge, ma il pericolo potrebbe essere evitato valorizzando l’obbligo di motivazione dei giudici di merito laddove questi ritengano di discostarsi da consolidati orientamenti della corte di legittimità, con ricadute – in caso di violazione dell’obbligo – anche di tipo disciplinare.
Il problema enorme che pone l’attuale assetto della giustizia impone scelte ben più profonde e consapevoli dell’utilizzo degli algoritmi. Come osserva opportunamente Edmondo Bruti Liberati su “Il Corriere della sera”, si tratta di superare l’attuale situazione in tema di distribuzione degli affari e degli uffici giudiziari, nonché di sopprimere tribunali strutturalmente non idonei alla funzione.
Inoltre, non è più pensabile, come osserva un gran numero di magistrati attenti all’efficienza ed efficacia dei processi decisionali, che i notevoli ritardi nel deposito delle sentenze o delle stesse decisioni istruttorie restino sottratti a provvedimenti disciplinari o incidenti sulle carriere.
A fronte di tantissimi giudici che svolgono con attenzione valutativa e nel rispetto dei termini processuali, la loro nobile funzione, il legislatore ha l’obbligo di introdurre sanzioni serie laddove ciò non avvenga.
Piero Calamandrei notava, con la sua arguzia sottile, che i termini previsti dalla legge per i giudicanti potevano definirsi “canzonatori” (cioè, sostanzialmente inutili e tendenzialmente elusivi), con ciò denunciando, sin dagli anni cinquanta dello scorso secolo, le inefficienze e le incongruenza di un sistema, ancora oggi sostanzialmente immutato ed immutabile in assenza di un chiaro intervento del legislatore.
Un intervento normativo oggi richiesto al Paese a fronte delle importanti risorse previste nel Recovery Plan, in cui la “questione giustizia” assume una centralità sempre più forte.
Giuseppe Fauceglia