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Ancora sui quesiti del referendum sulla giustizia (di G. Fauceglia)

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Questa settimana vorrei concludere la sintetica disamina su alcuni dei quesiti oggetto dell’iniziativa referendaria sulla giustizia, dovuta innanzi tutto al coraggio degli amici radicali. Uno dei quesiti più rilevanti è quello che prevede la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti, attualmente inseriti in un’unica categoria professionale che consente indistintamente di trasmigrare dall’una o all’altra funzione.

Per il comitato referendario questa contiguità tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti (dal punto di vista tecnico, solo questi ultimi possono essere definiti “giudici”) rischia non solo di dar luogo a fenomeni di tutela corporativa, nel senso che i giudicanti tendono a privilegiare la prospettazione dell’accusa (ciò che si verifica soprattutto in tema di udienza innanzi al giudice delle indagini preliminari, il c.d. GIP), ma soprattutto esclude il fisiologico antagonismo tra “poteri” posto a presidio dell’efficienza e dell’efficacia della macchina giudiziaria.

Che la necessaria separazione tra le carriere sia un tema non recente resta un dato di fatto, già l’indimenticabile Giovanni Falcone aveva in uno suo scritto avuto modo di precisare che la “cultura” e le stesse caratteristiche soggettive del magistrato inquirente (ovvero il pubblico ministero) fossero ben distanti da quelle che caratterizzano il magistrato giudicante (e proprio questa ovvia constatazione attirò su Falcone gli strali feroci di alcuni suoi colleghi).

Chi si oppone al quesito referendario sostiene che con la separazione delle carriere, il pubblico ministero finirebbe per perdere le caratteristiche proprie della “giurisdizione” ed in tal modo finirebbe per essere meno indipendente.

L’argomento, però non mi pare decisivo. Bisogna considerare che con la riforma del processo penale, risalente ai primi anni Novanta dello scorso secolo, l’Italia ha adottato il cosiddetto modello accusatorio (per intenderci quello di Perry Mason), con prove che vengono acquisite in contraddittorio nel dibattimento, con una ben circoscritta attività propulsiva del pubblico ministero, che diventa una “parte” del processo insieme all’imputato con  i suoi difensori e il giudice che resta assolutamente terzo ed equidistante.

Vi è, però, che l’esperienza pratica nei tribunali non ha abbandonato il precedente modello inquisitorio (con indubbia prevalenza dell’accusa), sicché la riforma è stata svuotata di ogni contenuto davvero innovativo. Del resto, i processi nel modello accusatorio hanno durata brevissima, tale da non consentire il mutamento del “giudice”, mentre da noi durano anni ed ogni volta che muta un componente del collegio giudicante si torna “punto e a capo”.

Allora, se davvero vuol darsi concretezza al modello accusatorio bisogna necessariamente procedere ad una netta divisione di carriera tra pubblici ministeri e giudici, anche perché quello che è emerso nel caso della tragedia della funivia Mottarone non può essere più accettato (pubblici ministeri che tentano di “condizionare” il giudice delle indagini preliminari, reazioni scomposte di fronte al provvedimento reso da quest’ultimo, che si presenta coerente e corretto nella prospettazione giuridica e finanche fattuale).

Connesso, dal punto di vista dell’impostazione teorica, al precedente quesito resta quello che interviene sulla custodia cautelare.

La Costituzione prevede che l’imputato non può essere considerato colpevole sino alla sentenza definitiva, ciò comportando il divieto di anticipazione della pena, a meno che questa non sia resa assolutamente necessaria da circostanze ben definite (ad esempio, il pericolo di fuga). Orbene, in questi anni si è assistito a provvedimenti di custodia cautelare, accompagnati dalla strombazzata giornalistica, che nel corso del giudizio si sono dimostrati completamente privi di ogni fondamento.

Dal 1992 al 2020, 29.452 casi di custodia cautelare sono stati riconosciuti, nel corso del giudizio, privi  di ogni fondamento, si tratta di circa 1015 persone in media all’anno arrestati in assenza dei necessari presupposti giuridici o di fatto, a fronte dei quali lo Stato italiano (cioè la collettività) ha dovuto esborsare oltre 794 milioni di euro di risarcimenti.

Allora, resta davvero necessario porre un freno all’utilizzo “disinvolto”  della custodia cautelare (anche a questo serve la separazione delle carriere), limitandola solo ai casi più gravi, come delitti consumati con l’uso delle armi, la reiterazione dei reati, reati di criminalità organizzata.

Resta importante, in questo quadro, avere consapevolezza dei quesiti referendari, nella convinzione che il referendum, che da solo non può comportare alcuna riforma legislativa, resta uno stimolo affinché un legislatore “consapevole” e “preparato” possa davvero dar luogo ad una riforma del processo penale e dell’ordinamento giudiziario.

Giuseppe Fauceglia 

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