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Meno Medio Oriente, più Cina (di Cosimo Risi)

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Il Premier Naftali Bennett, coerente con il programma del primo governo d’Israele senza Netanyahu, sta dispiegando una diplomazia del fare verso i vicini arabi.

Il Ministro degli Esteri Yair Lapid si reca in Marocco a cementare il recente accordo, il Ministro della Difesa Benny Gantz dialoga con il Presidente dell’Autorità Palestinese per disinnescare il caso Gaza.

L’azione, ad ampio raggio, mira al comune sentire con gli Arabi attorno a certi punti.

Comune è la riflessione circa l’affievolirsi  dell’interesse americano per l’area, gli USA guardano in priorità alla Cina. Non si disimpegnano sul modello afghano, Israele resta più di un alleato, favoriscono le convergenze fra gli attori regionali per contenere l’Iran e combattere l’islamismo radicale. Il quadro è ereditato dall’Amministrazione Trump con gli Accordi di Abramo fra Israele e, finora, quattro paesi arabi.

Le forniture energetiche sono un concreto motivo di convergenza. Da quando Israele è autorizzato a esportare parte del gas estratto al largo, un importatore di elezione è l’Egitto. Fra gli effetti degli Accordi di Abramo, è il via libera ai voli della compagnia israeliana verso il Golfo. Ora l’Egitto apre la rotta Cairo – Tel Aviv e il varco sul Mar Rosso per consentire agli israeliani il libero accesso ai luoghi turistici.

Per la prima volta dal 2011, Bennett si reca in missione ufficiale in a Sharm. Con Abdel Fattah al-Sisi non passa forse una corrente di simpatia, ma lo scenario retrostante, con le due bandiere in bella mostra, accredita la normalità diplomatica nel segno del pragmatismo. L’uno ha bisogno dell’altro per ragioni di politica interna e estera.

Israele è, per l’Egitto,  la scorciatoia per arrivare all’Amministrazione americana. Il Presidente democratico, a differenza del predecessore, è poco incline a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani. L’atteggiamento non è sempre coerente, si veda il caso afghano, ma la critica al regime di al-Sisi ci sta.

L’Egitto è, per Israele, il mediatore di ultima istanza nel confronto con Hamas a Gaza. Anche l’ultima crisi di maggio fu risolta con la mediazione egiziana. Nei confronti del Movimento, Cairo ha le chiavi della copertura politica e logistica, con l’apertura e la chiusura del valico.

Ambedue i paesi temono l’espansionismo iraniano, diretto e tramite le milizie sciite in Iraq, Siria, Libano. Per non parlare del paventato arsenale nucleare di Teheran.  Sul disinnesco i due governanti contano più su un’energica azione di deterrenza che sulla via diplomatica voluta dal Dipartimento di Stato.

L’Europa ha interesse che la regione si stabilizzi e che i focolai di crisi siano controllati dagli attori sul terreno. Deve concentrarsi su altri fronti. Il disordine libico continua a generare ondate di profughi. I flussi migratori sono considerati una minaccia alla tranquillità domestica. Sono valutati con realismo anche dalle forze politiche che si vorrebbero umanitarie, altrimenti le campagne elettorali pendono a favore dei sovranisti-nazionalisti.

L’Unione europea mostra di sintonizzarsi sull’attualità. Riprende  il dibattito sulla difesa comune, con il progetto di un “battlegroup” di 6000 unità fra elementi di terra e sistemi aerei e navali.                                 Non è la forza di dispiegamento rapido evocata sin dal 1999 e mai posta in essere. Si tratterebbe di un contingente più piccolo, con maggiori probabilità di impiego e  funzioni “combat”. Resta in sospeso il nodo della catena di comando. Chi e con quali modalità decide del “battlegroup”? All’unanimità in seno al Consiglio UE?

Attorno alla sicurezza e alla difesa è il Grande Gioco nel Mare della Cina. Pechino investe sulla flotta e minaccia di unificare la Cina annettendo Taiwan. Stati Uniti, Australia e Regno Unito concludono AUKUS (Australia, United Kingdom, United States), il patto sulla deterrenza nel Pacifico in chiave palesemente anti-cinese.

L’Australia rompe il contratto con la Francia per la fornitura di sommergibili convenzionali e compra sommergibili nucleari in America.  La Cina denuncia AUKUS come offensivo. La Francia richiama gli Ambasciatori da Washington e Canberra, in segno di protesta. La nuova crisi è in atto, la scena è animata dagli alleati NATO, dissociati in Afghanistan come ora nell’Indo-Pacifico.

di Cosimo Risi

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