No, il problema è dato da una serie di coincidenze. No Time to Die è l’ultimo della saga interpretato da Daniel Craig. Ultracinquantenne e onusto di gloria e sterline, l’attore preferisce dedicarsi a ruoli meno impegnativi sul piano fisico, ama infatti girare certe scene senza ricorrere alla controfigura, ne porta i segni sul corpo palestrato. E’ il primo film ad essere girato nel dopo Brexit e sotto l’egida del politicamente corretto.
Nella video intervista sul film, Craig vanta la presenza di una donna fra gli sceneggiatori. Il suo merito è di avere dato spessore ai personaggi femminili: non più le effimere Bond – Girls che, una volta sedotte, potevano scomparire senza rancore, ma donne dalla personalità articolata. Una addirittura, una nera tostissima, usurpa a Bond la sigla 007, anche lei ha la licenza d’uccidere.
Il politicamente corretto stravolge il personaggio di Bond rispetto all’archetipo dei romanzi di Ian Fleming ed ai precedenti film. Il primo, Dr. No, risale a cinquanta anni fa, aveva l’aspetto bello e beffardo di Sean Connery e il bikini lussurioso di Ursula Andress.
Il personaggio di carta era appena sgrossato, rappresentava l’epopea della Britannia post-imperiale ma con le reminiscenze dell’Impero. I nemici cattivissimi, l’agente di Sua Maestà chiamato a debellarli senza scrupolo, il riposo del guerriero garantito da fanciulle compiacenti quanto anonime.
Il personaggio cinematografico è cresciuto sulla stessa lunghezza d’onda. I nemici una volta erano all’Est, poi hanno migrato per il mondo, isolati o riuniti sotto il logo Spectre, con il Capo, Ernst Stavro Blofeld, che assume sembianze diverse con il procedere della saga.
Skyfall (2012) segna il vertice della parabola, fu diretto da Sam Mendes, il regista Premio Oscar di American Beauty, uno abituato al politicamente scorretto.
In era Brexit scarseggia l’ironia, la stessa che aveva portato Bond – Craig e l’autentica Regina Elisabetta a girare lo spot per le Olimpiadi di Londra. In compenso trionfano il politicamente corretto e la parità di generi.
Bond scopre di avere una figlia, ha i suoi stessi occhi azzurri, s’immola per amore. Dopo due ore e passa di proiezione, il film ci risparmia le scene di vita domestica. Il padre che accompagna la figlia a scuola. E poi al parco a lanciare l’aquilone, le mamme a guardare incuriosite la strana coppia, ma senza formulare pensieri lubrichi sul conto di Bond. Questi ha la pancia gonfia di birra, altro che Martini e champagne, e perso i capelli a favore della calvizie da pantofolaio.
Il week-end, nei rari giorni in cui a Londra fa bello, lo passa fra barbecue nel giardinetto di casa e partita allo stadio, il lunedì s’infila nel Tube verso il lavoro da funzionario, civile e appiedato, del Foreign Office. L’Aston Martin DB5 è un ricordo sbiadito, il gineceo lascia il posto alla monogamia da routine familiare.
Bond è uno di noi, le stesse passioni e gli stessi affanni. Finisce l’immedesimazione nel sogno di un possibile altro. La Global Britain vagheggiata dai Brexiters è la terra piatta dell’uomo qualunque da lettura dei tabloid.
La tromba e la voce roca di Louis Armstrong accompagnano i titoli di coda con All the Time in the World. “We have all the time in the world…”: noi abbiamo tutto il tempo del mondo. E Bond?
di Cosimo Risi
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