Torino 1955. Un bar del centro storico. Italo era seduto ad un tavolino, sorseggiava il suo caffè. Gli sedetti di fronte. Chiesi un biccerin, al cameriere. Osservai i dipinti delicati alle pareti e infine mi rivolsi a lui con parlare lento: “Pensiamo che il viaggio sia un’importante fonte di emozioni che non riusciamo a cogliere nel nostro vivere quotidiano e che possa offrirci nuovi orizzonti, per capire… Ho viaggiato tanto, spesso senza una meta, ma non riesco a cogliere nuove dimensioni dell’animo da esplorare, forse perché non riesco a dare una finalità alle mie ricerche? Mi muovo da tempo inseguendo una traccia incerta, di luogo in luogo, senza trovare una luce certa che mi illumini il cammino.”
Italo ascoltò con attenzione, in silenzio, poi quietamente, disse: “Scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane”
“Verso che luogo dovrei andare per capire? Dove mi potranno apparire le poche luci che contengono frammenti di certezze ed offrirmi notizie per condurmi al luogo perfetto? Tu dove sei diretto?”
Italo: “Non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo di un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia. Il dialogo di due passanti che si incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo sapere; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.”
“Italo, ma questo anelare a luoghi completi, perfetti, ideali non è forse spingersi troppo oltre? Questo cercare l’impossibile non è forse un alibi per non costruire cose possibili, non è forse un rinunciare a cose concrete per timore di non riuscire? E’ l’anima che cerca spazi ideali che assomiglino al Paradiso e rinuncia a cose concrete ma difficili da ottenere su questa terra? Non è la ricerca dell’impossibile una fuga dall’esperienza quotidiana, da quel vivere che spesso identifichiamo come infernale?
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.
“Ho imparato a cogliere il valore di ogni singolo luogo, ma ho sempre difficoltà a cogliere l’insieme, e questo mi fa disperare”. Tacqui di colpo, guardai i colori delle pareti in penombra, osservai Italo che dopo aver dato un’occhiata all’orologio disse: “Ti racconto una storia”. Un sorso di caffè e riprese a parlare: “In un luogo remoto un uomo di nome Marco Polo, mentre raccontava i suoi luoghi invisibili a Kublai Kan, descrive un ponte, pietra per pietra – Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
- Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mai parli delle pietre? E’ solo dell’arco che mi importa. Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.”
Lo ascoltai muto e il silenzio, spezzato da bisbigli in sottofondo, ci avvolse al suo tacere. Ero deciso ad andare fino infondo e continuai a chiedere, “Ma esiste un luogo ideale, una città ideale, o è solo un’esigenza della nostra anima?
Italo: “Città ideali esistono in ogni luogo ed in ogni tempo. Il vero problema è che non siamo capaci di riconoscerle; i luoghi ci appaiono diversi a seconda delle nostre esigenze; il vero problema è se noi, con le nostre ansie, le nostre paure, i nostri sogni, siamo adatti a riconoscere i luoghi perfetti che, continuamente, attraversiamo lungo il cammino. All’uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio di una città. Finalmente giunge. È dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; e lui ci arriva solo in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.
Poi, col tempo… viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.”
Mi sentii finalmente sereno, bevvi l’ultimo sorso di biccerin, osservai il suo viso per trattenerne i particolari; “grazie” dissi e mi alzai; lui mi sorrise vedendomi allontanare ed aggiunse: “ Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente, bisogna essere più forti della corrente, più forti, bisogna saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio; l’insieme è dato da tutte le pietre che sapremo individuare e più pietre sapremo raccogliere più saldo sarà il ponte e più vicini saremo al luogo perfetto ”.
Mi alzai e mi avviai e, mentre Calvino mi osservava, stretto nel mio paltò mi infilai nella fredda sera, scomparendo tra i vicoli.