Le proteste sono cominciate per ragioni economiche, il rincaro del prezzo del gasolio per autotrazione ha messo in crisi una larga fascia di popolazione. Lo scenario rammenta quanto accadde in Francia con il movimento dei gilet gialli, anche loro mobilitati dal rincaro del diesel per autotrazione.
La protesta si politicizza, i kazaki chiedono una svolta politica, nel nome della lotta alla corruzione. Il tema è ricorrente in qualsiasi parte del mondo, è anche il pretesto per un gruppo di potere per liberarsi degli oppositori scomodi.
Il teatro principale è la vecchia capitale Almaty, là si consuma la fine del regime Nazarbayev con la demolizione delle sue statue. Ecco un’altra analogia: la caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq si annunciò con l’abbattimento della sua gigantesca statua.
Nazarbayev, ultraottantenne e in cattiva salute, ripara all’estero con quello che resta della famiglia e, secondo la vulgata comune alle fughe, con un discreto pacchetto di valuta pregiata. Il dollaro è il salvacondotto degli autocrati in disgrazia.
Il potere, già ceduto nel 2019, è ora nelle mani del successore Kassym-Jomart Tokayev, già diplomatico e uomo di mondo, aduso a barcamenarsi fra i due ingombranti vicini. Il Kazakistan ha confini comuni con Russia e Cina. Nazarbayev è privato degli ultimi incarichi che ancora deteneva, il suo gruppo di riferimento rimpiazzato dai seguaci del Presidente in carica. Il trapasso di poteri si compie pienamente sull’onda delle proteste.
Chi siano i rivoltosi e chi li ispiri, è tutto da scoprire. La propaganda ufficiale li descrive come un misto di islamisti (il precedente della Cecenia in Russia insegna), di elementi filo-cinesi, di sobillatori professionali (i sospetti vanno ai soliti Servizi occidentali).
Tokayev può fare piazza pulita del precedente gruppo dominante e dei protestatari. La repressione è applicata con determinazione e si vale dei reparti inviati da Mosca. La polizia è autorizzata a sparare a alzo zero contro chiunque violi lo stato d’emergenza, in vigore fino al 19 gennaio.
La Russia interviene a difesa della legittimità istituzionale, assieme agli altri membri della CSTO, l’Organizzazione per la cooperazione in materia di sicurezza che riunisce Tajikistan, Kirghizistan, Armenia. Il Cremlino riafferma così il diritto, in questo caso anche il dovere pattizio, di intervenire per mettere ordine nell’ex area sovietica.
E’ lo stesso criterio che, con gli adattamenti del caso, la dottrina Putin intende applicare all’Ucraina. Dopo avere riacquisito la Crimea, a seguito però di un plebiscito popolare, l’attenzione si volge alle province orientali di Ucraina, dove la maggioranza russofona soffrirebbe il giogo di Kiev.
L’Ucraina intende candidarsi alla NATO. Se la domanda fosse accolta, l’Alleanza sposterebbe più a est la zona d’influenza. Un arsenale ostile a poca distanza da Mosca sarebbe insopportabile per il Presidente russo, che ancora rimpiange la vecchia URSS e la sua ampia fascia di protezione dalle minacce dell’Ovest.
I colloqui USA-Russia di Ginevra e di Bruxelles con la NATO hanno visto le rispettive posizioni cristallizzarsi sui punti di principio. Da una parte, la Russia chiede garanzie circa il non allargamento della NATO. Dall’altra, la NATO rivendica la libertà degli stati europei, e dunque dell’Ucraina, di scegliere le alleanze.
Le crisi kazaka e ucraina non fanno che allontanare il focus dal versante mediterraneo. Significativo è il caso della Libia: il paese è di nuovo in balia delle forze che vorrebbero smembrarla. Gli Stati Uniti, e con loro gli europei, sono chiamati a fronteggiare le crisi orientali e trascurare di conseguenza le altre.
L’Europa si trova scoperta riguardo alle sue esigenze e alle sue ambizioni. L’esigenza di procurarsi l’energia a prezzi ragionevoli nonché di avere un vicinato stabile. L’ambizione di dire qualcosa di conclusivo in situazioni che la vedono perennemente in secondo piano, ma senza più contare indefettibilmente sulla guida americana. La lezione dell’Afghanistan è ancora da recepire.
di Cosimo Risi