Nei due anni della pandemia abbiamo assistito all’indefinito moltiplicarsi di ogni tipo di bonus (ciò che una volta, in sostanza, si definiva con il termine “regalia”): il bonus abbattimento barriere architettoniche, il bonus del 110%, il sisma bonus, il bonus mobili ed elettrodomestici, il bonus verde, il bonus acqua potabile e idrico, il bonus facciate e ristrutturazioni, il bonus zanzariere, il bonus bebè e asili nido, il bonus nascite e il bonus mamme domani (sostituiti dall’assegno familiare unico), il bonus vacanze, il bonus rottamazione Tv, il bonus bici e vari mezzi di locomozione (solo per ricordarne alcuni).
Se in tutti i Paesi europei sono state introdotte misure per sostenere i redditi e l’economia durante il periodo della pandemia, solo in Italia si è dato luogo ad una improvvisa moltiplicazione di ogni tipo di sostegno, a volte delineato non già sulle vere esigenze della collettività, ma sulle categorie disegnate ad hoc dai partiti, nel tentativo di far crescere il relativo consenso elettorale.
Si tratta di misure in cui può facilmente individuarsi una spinta regressiva, perché sono indirizzate non già a dare sostegno ai poveri e ai bisognosi, ma per darlo ai ricchi, in assenza di un chiaro disegno di welfare efficiente e sostenibile.
E’ stata preferita la politica della parcellizzazione delle misure di c.d. sostegno, omettendo una distribuzione del pubblico danaro per gli investimenti nell’industria e nelle infrastrutture, nonché nella formazione della forza lavoro.
Le vicende che si leggono in questi giorni relative alle truffe del superbonus nell’edilizia hanno fatto emergere non solo l’insipienza del legislatore (quello giallo-rosa), ma soprattutto una fantastica elencazione di truffe che si sono consumate da nord a sud, con pari ripartizione territoriale (ne offre un esauriente resoconto l’articolo di Florenza Sarzanini, su “Il Corriere della Sera” di domenica 13 febbraio).
Si tratta di un complessivo valore di 4 miliardi di euro di crediti fiscali che non trovano alcuna rispondenza nel corrispettivo dei lavori che avrebbero dovuti essere eseguiti.
Prima della pandemia abbiamo discusso di razionalizzazione della spesa pubblica, di spending review , di meccanismi per mettere ordine nel bilancio dello Stato; ora affrontiamo il problema di spendere (male) soldi che dovremo restituire e la nostra classe politica ha completamente dimenticato quei dibattiti e quelle indicazioni del periodo pre-pandemico.
Ci siamo accaparrati ben 70 miliardi di sovvenzioni, e, a differenza della Spagna e della Francia, abbiamo scelto di prendere tutti i 123 miliardi di prestiti, e non contenti abbiamo aggiunto lo scostamento di bilancio per altri 31 miliardi di debito pubblico (che solo l’incoscienza dei pentastellati vorrebbe ancora far lievitare).
La spesa pubblica ormai è approdata al 57% del PIL e lo scorso anno ha superato i mille miliardi, ma nessuno si chiede come faremo a restituire questi prestiti e come faremo per risanare i nostri già disastrati conti pubblici.
Senza considerare che le turbolenze internazionali e la crisi energetica finiranno per stroncare la crescita di questi ultimi mesi e per spegnere l’allegria dei nostri “Pinocchi”, che continuano a trastullarsi nel Paese della cuccagna.
Nessuno pare rendersi conto che l’aumento assai probabile dei tassi finirà ancor di più per gravare sul debito pubblico, senza che, a fronte della crescita della spesa pubblica, si ponga anche una valutazione seria sul rapporto costi e benefici.
Giuseppe Fauceglia