Professor Crisanti, la pandemia sta volgendo al termine?
«Non può esser finita con quasi 100.000 nuovi casi al giorno. È cambiato il tipo di organizzazione ed è cambiata la risposta data al virus, quindi parlare di emergenza non ha più senso».
In Italia la crescita della curva epidemica accelera. Cosa si potrebbe fare in questa fase per contenere il contagio?
«Con la variante Omicron Ba.2 non si può contenere il contagio. Il vaccino è consigliabile, ma non basta. L’unica cosa da fare è proteggere i fragili, mettendoli al riparo dal virus. I morti che ancora si registrano sono quasi tutti soggetti fragili e vaccinati. Abbiamo circa 150 decessi al giorno. Se questo numero non scende, il Covid resterà ancora la principale causa di morte in Italia. Una situazione non più accettabile».
Come fare in modo che siano protetti i più fragili, se il virus circola liberamente?
«Se si tratta di persone in età da lavoro, consentendogli di lavorare da casa. Se invece non lavorano e hanno bisogno di assistenza personale, è chiaro che i loro badanti o famigliari devono esser messi nelle condizioni di fare un tampone molecolare prima di andarli a trovare. In più, sarebbe bene spiegare a tutti che, pur con la fine delle misure di contenimento, non è il caso di smettere di proteggersi. Tanto più i soggetti fragili, che dovrebbero continuare ad indossare la mascherina Ffp2 in tutti i luoghi al chiuso ed evitare di andare in situazioni di potenziale pericolo. Al momento non vedo altra strada, visto che la nuova variante buca completamente il vaccino ed è in grado di infettare anche persone immunizzate».
Bisognerebbe forse arrivare allo studio di un vaccino aggiornato, che metta al sicuro anche dal contagio per evitare che gli immunodepressi sviluppino una malattia grave?
«Non so se basterebbe a risolvere il problema. Anche quando avevamo la variante inglese, su cui il vaccino era stato studiato, abbiamo visto che dopo tre mesi la risposta iniziava a diminuire. È un problema delle caratteristiche di questi vaccini, che inducono un’immunità contro l’infezione non elevatissima».
Il Covid-19 è apparso per la prima volta due anni fa. Con la fine dell’emergenza sanitaria, per il graduale ritorno all’ordinario, è tempo di fare bilanci. Quali ritiene siano stati gli errori maggiori commessi negli ultimi due anni e mezzo?
«Ne sono stati fatti tanti. Difficile elencarli tutti e dare un peso a ciascuno. Sicuramente agli inizi c’è stata un’enorme sottovalutazione del problema. L’unica cosa che ha veramente cambiato la gestione della pandemia è stato il vaccino. Tutte le misure prese prima dell’arrivo del vaccino hanno avuto un effetto estremamente limitato».
Personalmente, qual è stato il momento che ha patito di più?
«Un momento di grande frustrazione personale risale all’estate 2020, quando tutti si comportavano come se il virus fosse scomparso da un giorno all’altro. In tale occasione, provai a dire che la pandemia non era finita. Purtroppo non fui ascoltato. E in autunno arrivammo alla nuova ondata completamente impreparati».
Con l’allentamento delle misure di contenimento teme che ci si possa dimenticare ancora una volta dell’esistenza del virus?
«Credo che gli oltre 150 morti al giorno che ancora vediamo nel bollettino siano lì a ricordarci che il Covid-19 è tra noi».
Al suo curriculum di microbiologo, nell’ultimo periodo di pandemia, si è aggiunta un’attività di ricerca considerevole sul coronavirus. L’ha distolta dalle sue precedenti vocazioni di ricerca, ad esempio dagli studi sulle zanzare per ridurre la trasmissione della malaria?
«Non ho mai sospeso le mie vocazioni di ricerca in questi mesi. La pandemia ha aperto semmai nuovi orizzonti di studio, ma non mi ha portato ad interrompere il lavoro su altri fronti. Perciò il fatto che l’emergenza finisca non influisce sul mio operato».
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