I criteri per distinguere il “vero” dal “falso” non sono più fondati sulla faticosa ricerca della “realtà”, quanto sulla quantità di like, sui quali poi viene fondata l’ illusione della conoscenza e della “supercazzola” che diventa “verità”.
La formidabile potenza della “rete” e la quantità di “informazioni” che dalla stessa possono essere tratte va attentamente valutata, perché troppa informazione spesso, se non sempre, si traduce in disinformazione (e sul tema l’insegnamento di Umberto Eco resta ancora fondamentale).
Questa realtà, che consente l’immediato accesso ad una enorme massa di informazioni non vagliate, crea il fenomeno ben noto della post-verità, la trasformazione onirica dei dati fattuali. Si vengono, in tal modo, a creare collegamenti del tutto privi di logica, correlazioni stabilite per assonanze, impropriamente rappresentate come causa ed effetto dell’inverosimile.
Uno dei più rilevanti intellettuale francesi, Maurice Béjart, esprime il proprio sconcerto e la propria disillusione con l’espressione, fortemente significativa, “Malgré la merde, je crois !”.
La società della pigrizia, quella che si è imposta con lo smart working (vi inviterei a fare un giro tra le pubbliche amministrazioni per constatarne gli effetti !) e con la didattica a distanza (i cui effetti devastanti sono costretto a verificare ogni giorno nell’insegnamento universitario), ha partorito un “pensiero” (se così si può dire) che si sviluppa su comunicazioni, le quali si fondano e si auto-producono sulle proprie personali convinzioni.
Si è così venuto ad affermare una intera società segnata da un tasso di analfabetismo primario, secondario e funzionale, in cui i desideri degli individui sono determinati da decisioni create da algoritmi. Le nostre riflessioni e le nostre comunicazioni non si fondano più sul faticoso e lungo processo di acquisizione di conoscenze, ma sulla lingua internettiana, corrispondente ai pochi caratteri di un tweet, dove è impossibile (e, forse, inutile) sviluppare ogni tipo di ragionamento.
La magnificazione del futuro, come descritto dall’ottimismo dei cantori dell’esistente, finisce per tradursi nella manifestata indifferenza verso il passato, le sue ragioni e il suo stesso progredire storico. Nel mentre, andrebbe affermata la necessaria ricerca di una “sistematica del pensiero” (in tutti i campi dell’esperienza cognitiva).
L’eliminazione del digitale dalla vita resta un’opzione autolesionistica (ricordo il romanzo di Don Delillo, “Silenzio”, edizioni Einaudi), ma si presenta altrettanto necessario delineare un confine nella ricerca di valori “significanti”, non lasciati alle tante opzioni emotive.
In questa “missione”, ispirata solo dall’ottimismo della volontà, non può essere sottovalutato il ruolo della “scuola”, che deve ritrovare nella propria autorevolezza educativa la sua stessa ragion d’essere e deve essere sottratta dalle improprie influenze di genitori invadenti, che consumano il loro ruolo diseducativo, e di studenti che spesso dimenticano che la funzione della scuola è quella di “educare” (anche nelle conoscenze) e non già quello di acconsentire ad un mondo che vive senza regole.
Giuseppe Fauceglia