Comincio dalla “Scuola” e dalla polemica che in questi giorni ha riguardato il modo di “vestire” degli studenti. Come argutamente nota Dacia Maraini in un articolo su “Il Corriere della Sera”, “i vestiti parlano, rappresentano un linguaggio molto evidente e quasi mai riguardano la libertà personale”, restando manifestazioni di mode e di linguaggi che richiamano la seduzione.
La moda suggerisce, però, anche un linguaggio diverso, a seconda dei luoghi che si frequentano, così, ad esempio non si va in chiesa con gli stessi indumenti che si utilizzano in palestra, né si va a scuola con gli stessi abiti con cui si va a ballare in una discoteca.
Orbene, ogni luogo, proprio per la sua ontologica diversità, richiede un “modo di presentarsi” diverso, e se a scuola si va con gli indumenti del mare, resta evidente che ciò è possibile proprio perché la scuola ha perduto non solo la sua sacralità, ma pure la sua autorevolezza, come dovrebbe essere incarnata da dirigenti e docenti.
Nel corso degli anni, sull’onda di un malinteso senso della modernità, negli ambienti scolastici è stato completamente smarrito il senso di compostezza, di pudore e di decenza dovuto in quella “casa dell’educazione”, in cui dovrebbe trovare spazio solo il difficile percorso dell’apprendimento.
Invero, la perdita della “decenza”, non solo quella del vestirsi ma pure quella dell’ “apparire”, che deve assistere ogni funzione pubblica, specie quella dell’amministrazione della giustizia, ha finito per riguardare anche il “Tribunale”, che resta il locus dove più alto dovrebbe essere il senso della “sacralità”. Qui, ormai da anni e con un progressivo crescendo, a volte lo svogliato e superficiale “juris dicere”, che è rappresentato dalla sentenza o dai provvedimenti giurisdizionali, ha finito per sostituire il rigore argomentativo, la attenta valutazione del “fatto”, l’approfondimento delle questioni giuridiche. Il tutto, in uno con gli scandali e le evidenti disfunzioni dell’ordinamento giudiziario, che ha caratterizzato gli ultimi anni, ha inciso sullo smarrimento dell’ “autorevolezza” di giudici, avvocati ed operatori del settore.
La completa assenza di rispetto che si registra nella “Scuola” e la perdita progressiva della fiducia nella “Giustizia” sono fenomeni concorrenti che finiscono per minare la base della necessaria autorevolezza che deve assistere sia la funzione educativa che quella giurisdizionale.
La perdita di autorevolezza finisce irrimediabilmente per minare la stessa convivenza democratica, le ragioni stesse di una comunità. Per questi motivi, prescindendo – lo ripeto nuovamente – dal giudizio che si intende dare sui quesiti referendari, l’esercizio del diritto di voto rappresenta l’unico vero strumento per ridare dignità al mondo della Giustizia, per pretendere un “linguaggio”, per rispettarlo, per riconoscerne la specialità e la centralità. Istruzione e giustizia sono oggi i mondi che più di altri, insieme alla politica, richiedono “autorevolezza” nei soggetti che sono chiamati ad interpretarli.
Giuseppe Fauceglia