Un palco e delle sedie, disposti per un incontro culturale in cui si parlerà del tempo passato e del futuro.
In un angolo della piazza, sulle scale che conducono alla soglia della sua abitazione, una bimba gioca; ha una bambola in braccio, le canta una ninnananna; la bimba non si chiede del tempo, conosce solo il presente, gioca.
Da quella piazza verso levante si inerpica una scala dagli ampi gradini che giunge fino alla Chiesa Madre, testimonianza di fede e tradizione, il cui alto campanile, color rosa sbiadito, domina sul borgo; si vede da ogni vico. All’interno è custodita una preziosa scultura lignea, del XV secolo, della Madonna con il bambino. Rimango a lungo ad osservarla.
Al lato opposto della piazza, una via pittoresca si arrampica tra case magre e scarne, conduce nella parte alta del paese, è un vicolo ricco di interessanti portali, su cui si apre l’altra chiesa, quella di S. Rocco, patrono del paese.
Sempre da quella piazza, su cui si affaccia il comune, verso il basso si dipanano stradine dalle quali per secoli i contadini scendevano a valle all’alba per lavorare la terra e rientrare al tramonto. Giornate che si sono snocciolate per secoli, uguali giorno dopo giorno; quel lavoro tramandato di padre in figlio senza che mai nessuno si chiedesse perché . Ogni nuova generazione lo esercitava così, come avevano fatto i padri e come avrebbero fatto i figli, senza chiedersi se si potesse vivere in un’altra maniera. Pian piano, senza saperlo, hanno creato una civiltà immensa, la civiltà contadina.
Ma ritorniamo nella piazza.
La gente è contenta, si celebra un riconoscimento importante per il paese. Ci sono il sindaco e il vicesindaco, c’è l’attento deputato figlio di quella terra, ascolto cose interessanti e concrete, pensieri da ricordare. Roccanova è in piazza perché festeggia il riconoscimento del suo Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT): la “Sauza Ca’ Coscia”. È un condimento fatto con pomodori essiccati al sole (che ricordano la forma di coscia di donna) e conservati sott’olio, con peperoni secchi e peperoncino piccante.
Ma può una salsa essere considerata cultura? Senza alcun dubbio, se racconta il passato, se racconta una terra, se racconta un periodo, se racconta la disperazione di un tempo, se è originale, se ha un sapore accattivante.
La cultura, in senso antropologico, è il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali.
Tutti in paese danno il loro contributo alla realizzazione dell’evento; è bello vedere tanti giovani impegnati nello stesso scopo. Tutti hanno offerto un contributo importante, ma in tutti i presenti il pensiero va alla famiglia Appella e in particolare alla signora Angela che questa tradizione l’ha conservata e diffusa. È impossibile andare via da Roccanova senza passare dal loro ristorante “La Villetta” dove la tradizione si tocca con tutti i sensi. Mi pare di vederla la signora Angela, muovere velocemente le mani mentre dà forma ai Raskatiell (cavatelli fatti in casa ad otto dita), ovviamente da condire con abbondante sauza cà coscia. Lì la tradizione è stata da sempre continuità…
Finita la manifestazione saluto tutti e mi allontano. Rivedendo la bimba che gioca ancora sulle scale, mi ritornano alla mente i versi di Albino Pierro: L’uomo, / non sa più volgersi intorno/ alla ricerca di un palpito di vita nascosta; / passa, cieco, e va oltre, / mentre gli occhi tristi di una bambina/ che si stringe a una bambola / fra le cupe rovine della sua casa,/ lo seguono, e lo vedono sparire, / come un personaggio vestito di ferro / d’una favola dimenticata.
Enzo Capuano
Immergersi nell’ atmosfera di un piccolo borgo perso tra valli, fiumi e montagne. Qui, dove le occupazioni sono semplici, le distanze brevi, il rapporto umano intenso, i legami profondi anche con le cose e l’ambiente, il tempo dilatato, le stagioni che segnano i gesti quotidiani, l’ odore del fumo di legna che vaga nel vento tra i vicoli scoscesi, il profumo di pane cafone appena sfornato che sa di buono e di infanzia lontana, dove la mente vaga libera nelle lunghe pause che i silenzi concedono per dialogare con se stessi. Negli occhi del visitatore appare lo stesso stupore ammirato che coglie l’ archeologo, chino nella polvere dello scavo quando, scostando il terriccio, porta alla luce un oggetto creato da un individuo della sua stessa specie in un tempo lontano. Ci sentiamo allora pervasi da un improvviso struggimento, da una sensazione di cose inesorabilmente perdute e ci chiediamo spaesati, confrontando questa realtà così estranea dalla nostra attuale, se apparteniamo ancora alla stessa specie. Certamente lo siamo fisicamente, anzi in questo caso il lavorio evolutivo e il balzo delle condizioni di vita, ci hanno resi più ricchi, sani e forti. Ma non più saggi. Analizzando il nostro stato mentale, ci chiediamo se ci siamo davvero evoluti, oppure diventati esseri senz’anima, ormai incapaci di vivere l’ esistenza in armonia con noi stessi e con tutto ciò che ci circonda, raggiungere il fine della felicità su questo pianeta, da cui si è generata misteriosamente la vita e la nostra realtà terrena. Forse siamo diventati così poichè abbiamo abbandonato la semplicità del vivere, ( come affermava Diogene : “L’uomo ha complicato ogni singolo semplice dono degli Dei”), non cogliamo in pieno la bellezza della vita perchè distolti e intrappolati dalle complicazioni da noi stessi creati. Andar per borghi poco conosciuti, oggi, che si calpesta il mondo in lungo e in largo è diventato una moda o forse una necessità, Forse per cercare tra le pietre dei muri scalcinati , i chiaroscuri di scale e portoni, il silenzio di chiesette mute, la risposta ai nostri interrogativi senza risposta. Oppure semplicemente alla ricerca di sapori sinceri, non contaminati da additivi industriali, piatti semplici e millenari e non “rivisitati” da chef famosi ma cucinati da mani che hanno acquisito l’arte tramandata dai padri, di prodotti che sanno ancora dell’orticello vicino a casa.
“Come fresco era il mio limbo / amici forestieri partiti per sempre” scriveva Rocco Scotellaro perché è la immacolata, universale curiosità del bambino insieme con la saggezza del vissuto profondo che possono portare a Roccanova.
Lì le stradine, i vicoli e le chiese sembrano più immutate e persistenti che altrove e pare davvero che i rumori degli zoccoli degli asini e delle vecchie scarpe chiodate non riescano a scollarsi dai muri delle case vecchie.
La celebrazione di un sugo, semplice, cafone, richiama la gente, quella di “fuori” che viene a vedere, a guardare il paese, ad assorbire lentamente le essenze di quella vita. E piano, il respiro diventa più profondo ed il cuore rallenta, si placa.
E’ questo che offre il paese.
Ma c’è che si gira intorno mentre tutti guardano il sindaco e ci vogliono degli occhi speciali per soffermarsi su quella bambina con la bambola e sentirsi tutt’uno con i portali consumati, le chiese, le scale ed i vicoli.
Forse è questa capacità di far sentire le persone unite e parte di una stessa realtà a spiegare il senso di comunione, di benessere interiore che prendono gli “amici forestieri”.
E’ questo che induce a partire alla volta di Roccanova, di San Martino d’Agri, di Aliano ed è il sapore di pulito, la leggerezza dello spirito che rimangono ancora, quando si ritorna a casa.
Perché se “là, nell’ombra delle nubi sperduto/giace in frantumi un paesetto lucano” è anche vero che il poeta chiama: “ Venite a scoprire i sacri altari/Ove è sommersa l’anima di un arabo/Del greco che si mise/La prima volta a cantare”.
Grazie P. M, grazie caro Giovanni avete reso le emozioni raccontate, sospese tra ricordi e voglia di ricercare cose semplici, come i giochi di una bimba, o l odore di un paese antico, ancora più vere ed interessanti