Secondo la Cassazione, però «le sentenze di merito non riportano l’evidenza dell’avvenuta appropriazione» da parte dell’imputata «e, dunque, della realizzazione di un peculato». I giudici sottolineano in particolare che dalle prove «era emerso come la donna si fosse assentata per un periodo di tempo dal lavoro per ragioni di salute» e che per questo aveva ritardato oltre il termine il versamento delle somme dovute. Per i giudici supremi non è rilevante il fatto che, durante il periodo di assenza, la ricevitoria fosse stata gestita dal marito dell’imputata, che – secondo la Corte d’Appello – avrebbe dovuto effettuare i versamenti su sua indicazione.
«Così argomentando, si finirebbe infatti con il far trascendere, in modo tanto surrettizio quanto inaccettabile, il peculato in delitto colposo». La Cassazione infine ricorda che la sanzione «deve essere parametrata alla gravità della condotta contestata, che non può essere sovrapposta a mere, seppur deplorevoli, inadempienze contrattuali verso la parte pubblica». L’eventuale colpa va invece configurata «nei soli casi in cui dalle caratteristiche del fatto emerga senza ombra di dubbio» l’intenzione di appropriarsi di somme appartenenti allo Stato.
Fonte Ottopagine