E’ sufficiente pensare alle altissime cifre dell’evasione dall’obbligo scolastico e dell’abbandono degli studi, compresi quelli universitari, nonché all’imperare di strutture private che, in assenza di qualsiasi controllo, moltiplicano all’infinito diplomi e lauree, senza scrutinio di un qualsiasi serio percorso formativo. E’ ben noto che il 23,1% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni di età non studia e non lavora, e una buona parte di questi è anestetizzato dal metadone del reddito di cittadinanza.
Il dato più evidente è che la Scuola, non certo per colpa di chi ci lavora ma per le sconsiderate politiche di questi anni, ha smarrito progressivamente la missione nel ruolo essenziale del “sapere”, non ponendo al primo posto il merito, non motivando allo studio, con il conseguente affermarsi di un vero e proprio analfabetismo cognitivo di massa, che emerge in tutta la sua invasività negli studi universitari (basta esaminare i risultati delle prove Invalsi, che delineano una netta differenza tra due “Paesi”, il Sud e il Nord).
Per risolvere questa situazione non si richiedono “controriforme”, ma è necessario ripensare all’intera organizzazione del sistema dell’Istruzione, partendo dall’innalzamento a 18 anni dell’obbligo scolastico e delineando nuovi sbocchi che dovranno aprirsi per l’accesso all’Università dopo l’esame di licenza della scuola secondaria.
Sino ad oggi, esiste la possibilità che l’accesso all’Università sia indistintamente consentito con il diploma di qualsiasi scuola secondaria (da quella professionale al liceo classico); ciò, però, finisce per distorcere profondamente sia il carattere di quest’ultima che la stessa formazione universitaria, fino ad incidere sulle concrete dinamiche del mercato del lavoro (in termini di acquisita competenza “professionale” dei giovani).
Invero, proprio nel corso della formazione secondaria andrebbero attentamente valutate le attitudini, le competenze effettive degli alunni e le loro vocazioni (spiace dirlo, in ciò valorizzando quel criterio selettivo che è dato dalla “bocciatura”, che non è un dato classista ma esclusivamente una valutazione del merito) e sul risultato conseguito delineare il successivo percorso universitario più idoneo.
Proprio per questo, potrebbe essere importante pensare ad una riforma, di recente rappresentata da Ernesto Galli della Loggia in un interessante articolo pubblicato da il “Corriere della Sera”, che risiede, secondo il modello tedesco, nell’individuare due distinti percorsi universitari: il primo destinato a creare un’ Università di scienze applicate abilitata alla formazione di professionalità utili per l’inserimento immediato nel mercato del lavoro (nel campo dell’ingegneria, dell’architettura, della medicina di base, delle tecnologie, della formazione nelle scienze sociali e nella pubblica amministrazione), ed un’Università che abilita essenzialmente alla ricerca, all’insegnamento e a quelle professioni che richiedono un particolare bagaglio culturale (nel campo, ad esempio, della magistratura, dell’avvocatura, della magistratura, della medicina clinica).
Quest’ultima affidata ad Università pubbliche o private sottoposte ad un controllo di produttività scientifica e didattica dei docenti (il tema della loro retribuzione resta altro profilo da riformare, adeguandola a quanto accade in altri Paesi, ad esempio Francia o Germania, laddove resta loro precluso il contemporaneo esercizio di attività professionali).
E’ evidente che pure questo disegno “duale” dell’Università impone una diversificazione degli stessi studi superiori e del ciclo scolastico nella sua interezza. Accanto ad un ciclo omogeneo all’attuale liceo classico o scientifico, andrebbe proposto un altrettanto valido ciclo professionalizzante, orientato all’accesso nelle Università del primo “tipo”.
Non può essere omesso che qualsiasi riforma deve seriamente considerare la attuale normativa degli istituti cc.dd. privati o paritari e delle Università telematiche (tra quelle private, un ruolo non secondario va, invece, riconosciuto a quelle “storiche”, ad esempio, Università Cattolica, Bocconi e Luiss), imponendo a queste ultime piante organiche di docenti con qualificazione risultante dal medesimo percorso di accesso accademico, che si richiede per le Università pubbliche.
Quest’ultima riforma resta assolutamente necessaria non solo per valorizzare l’Istruzione pubblica, che nel nostro Paese ha assicurato un alto livello di eguaglianza, ma soprattutto per evitare che percorsi alternativi “al ribasso” possano per alcuni favorire l’accesso a concorsi pubblici, a volte sulla scorta del semplice conseguimento del c.d. “pezzo di carta”.
Solo con questi presupposti, i quali dovrebbero caratterizzare un programma di Governo davvero alternativo ed innovativo nelle politiche dell’Istruzione, possono costruirsi le basi per una vera e duratura riforma del sistema.
Giuseppe Fauceglia