Per quelli che non c’erano: 42 anni fa, il 23 novembre del 1980, ce la vedemmo brutta. Nel bel mezzo della sintesi della partita di serie A – il massimo che ci potevamo permettere in un’epoca in cui il calcio non era ancora merce da pay-tv – il buio improvviso, un assordante boato e i palazzi che dondolando quasi si toccavano. Alla fine della fine del mondo – un minuto e mezzo, ma sembrò eterno – ci ritrovammo per strada. Miracolati, ad abbracciarci tra noi. Poi sapemmo che altrove era andata molto peggio per tante persone, uccise da un sisma devastante. Certo, non eravamo preparati per affrontare cataclismi. Oggi si, oggi abbiamo uomini, mezzi, piani di prevenzione, abbiamo la Protezione Civile ma poi certi eventi climatici, di tanto in tanto, ci riportano coi piedi per terra e ci ricordano che la natura è imprevedibile e spesso incontenibile: quando si scatena, in mille forme che vanno dai terremoti ai maremoti, dai cicloni alle bombe d’acqua c’è poco da fare. O, quantomeno, c’è poco da fare dopo. Tutto quel che si può, anzi, che si deve fare va fatto prima. Ci sono dei lavori – assolutamente fondamentali per il bene della collettività – parliamo delle cosiddette “opere invisibili”, ovvero grandi interventi e piccole, ma costanti manutenzioni che non rubano l’occhio né catturano consensi popolari proprio perché non si vedono. Lavori sotterranei che potrebbero, dovrebbero scongiurare disastri, alluvioni, ruscellamenti, allagamenti, che dovrebbero arginare i problemi causati dalle piogge torrenziali. Se, ogni volta che la butta giù di brutto, siamo poi costretti a far la conta dei danni, allora è probabile che non tutto sia stato fatto a regola d’arte. L’allerta Meteo ormai ci fa sobbalzare, ci spaventa. E non va bene, stiamo per entrare nel 2023, mica nel 1981?