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Quando la giustizia mediatica ha già deciso: i casi Juventus e Soumahoro

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In questo tempo buio incompetenza, ignoranza, perdita della memoria, malafede, invidia, bieco interesse politico e gelosia si intrecciano tra loro nello scorrere di talk-show, sulle pagine dei giornali e nel vuoto intellettivo dei social, in un’Italia in cui il giustizialismo populista sin dal 1992 ha avvelenato tutti i cuori.

Comincio dal caso Juventus: l’indagine su presunte plusvalenze e stipendi nel periodo della pandemia e le dimissioni della dirigenza juventiva equivalgono già, per il pubblico indistinto del “nulla”, ad una sentenza di condanna. Credo di restare tra i pochi, in questo tempo, a conservare memoria di qualche evento.

Voglio ricordare l’ allucinante vicenda del 1980, quando imponenti forze di polizia invasero gli stadi di serie A, su ordine  della Procura di Roma. per arrestare calciatori noti (Pellegrini, Albertosi, Morini, Wilson, Giordano, Mafredonia) e metterne altri sotto inchiesta ( tra cui Paolo Rossi, Savoldi, Damiani, Dossena). Si tratta dell’inchiesta Calcio Scommesse o Totonero che ha rappresentato il primo esempio di giustizia mediatica nel nostro Paese; ricordo ancora il furente giustizialismo che afferrò un uomo mite, come Paolo Valenti, che a “90’ Minuto” trasmise in diretta gli arresti.

Quell’inchiesta travolse il destino umano e professionale di veri campioni, ma dopo mesi di udienze un Tribunale dichiarò la innocenza di tutti gli indagati. Questo, però, non aveva evitato le pesanti squalifiche comminate dalla cosiddetta giustizia sportiva, che si fonda su quell’indecifrabile “principio di lealtà”, che consente “di applicare la legge per i nemici e di interpretarla per gli amici”.

Per anni abbiamo registrato inchieste di minore impatto mediatico, come quella di un tentativo di combine tra Atalanta e Pistoiese, sino ad arrivare al terremoto del 2006 con lo scandalo di Calciopoli, affidato alla Procura di Napoli.

Vennero sottoposti al pubblico ludibrio Moggi e Giraudo, oltre che arbitri (come De Santis, Bertini e Racalbuto) e il designatore Pairetto, e pure in questo caso solo nel 2015 il Tribunale di Napoli assolse da ogni accusa gli indagati (dopo anni di gratuita sofferenza), mentre la solerte giustizia sportiva, sotto la guida di un commissario di dichiarata fede interista, condannò alla retrocessione la Juventus, ovvero quella grande squadra che aveva “vinto i mondiali del 2006” (considerato che vi militavano gran parte dei calciatori della Francia e dell’Italia, arrivate in finale).

Per non parlare di Scommessopoli, che vide coinvolti noti calciatori (come Conte, addirittura il capitale della Lazio, il povero Mauri, subì l’onta mediatica di essere arrestato in diretta televisiva): le indagini partite dalla Procura di Cremona si conclusero con l’assoluzione degli imputati dall’accusa di truffa, che venne attenuata in quella di omessa denuncia.

Se mai, il problema del calcio non sono solo i bilanci (anche il Milan venne coinvolto in una vicenda simile), ma l’intreccio pernicioso tra interessi dei procuratori e quello degli sponsor o delle reti televisive, che fanno immotivatamente lievitare le quotazioni di calciatori (a volte, assai “scarsi”) e producono una girandola incontrollata di centinaia di milioni di euro.

Passo, ora, alla triste parabola di Aboubakar Soumahoro, al quale non è stato perdonato niente, anche se non sussiste neppure il “sospetto” di un suo comportamento illecito, che riporta la vicenda alla manifestazione di una vera e propria “giustizia proletaria” (come scrive su “Il dubbio”, Gianfranco Caminiti, che nel suo articolo offre un ampio resoconto della vicenda).

Premetto che non nutro alcuna simpatia politica nei confronti di Soumahoro né della parte politica che lo ha (non toppo ingenuamente) candidato, ma è opportuno ricordare che la tradizione giuridica vuole la responsabilità penale come “personale” e la circostanza che egli non si sia avveduto dei fatti contestati, ma non ancora accertati, alla suocera e, sembrerebbe, alla moglie, non può assurgere, allo stato, ad una compartecipazione diretta negli eventi.

Qui la vicenda riguarda i “compagni” che ne hanno fatto un’icona (nella grancassa mediatica sapientemente organizzata da Saviano, Damilano, Fazio ed altri), non percependo quelle criticità sollevate dalle organizzazioni che operano nel foggiano. Si può imputare a Soumahoro una “doppia morale”, una “pubblica” ed una “familiare”, con indubbi effetti politici sulla sua posizione e su quella del partito che lo ha candidato, ma certamente questo non può giustificare la gogna mediatica.

Sono casi che dovrebbero imporre una riflessione più razionale ed avveduta, ma si sa ciò non può avvenire in un Paese che, purtroppo, del sospetto e delle illazioni ha fatto, per colpa di alcuni partiti e movimenti, il “credo “ della sua fragile esistenza.

Giuseppe Fauceglia    

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