E’ questo un risultato che discende dal teorema sociologico della stagione di “Mani pulite”, un vero e proprio trauma per la democrazia che trent’anni non sono riusciti a sanare.
Come sempre in Italia i fenomeni più divisivi – e quella stagione lo è stata – non sono analizzati con sufficiente oggettività, sì che, ancora oggi, si confrontano due opposte opinioni: la prima sostanzialmente guidata dalla magistratura inquirente, la seconda composta da chi strenuamente difende il vecchio sistema dei partiti.
Né l’una né l’altra sono, però, in grado di spiegare l’insuccesso di quella stagione, l’ambizione smodata di qualche suo diretto protagonista, la progressiva perdita del “senso” delle istituzioni, che nel nostro Paese ha portato all’esplosione del populismo giustizialista, con effetti che sono ormai sotto gli occhi di tutti (blocco delle iniziative amministrative per paura di un reato assurdo ed inutile, come l’abuso di ufficio; moltiplicazione di contenziosi, a volte palesemente infondati; sequestri preventivi di cantieri di opere pubbliche che durano decenni).
Invero, nell’uno e nell’altro dei contrapposti orientamenti alberga una ipocrisia evidente: chi difende le iniziative giudiziarie non vuole avvedersi degli eccessi, degli errori (per non dire, orrori di certe iniziative che hanno sconvolto la vita delle persone), delle disfunzioni di un sistema e di un ordinamento giudiziario che costituisce esempio pressoché unico nel panorama delle democrazie occidentali (basti pensare al tema delle “responsabilità” disciplinari).
Dall’altra parte, vi è una difesa strenua delle ragioni del vecchio sistema dei partiti, che indubbiamente si presentava obsoleto ed inefficiente, cui segue il difetto valutativo sull’inefficienza amministrativa (che non si traduce sempre in un reato), così rinunciando ad un disegno di vera riforma della pubblica amministrazione.
Il terreno di confronto diventa allora assai arduo sotto la spinta emotiva di una pubblica opinione che invoca sempre più “condanne” anche in assenza di “colpe”, irresponsabilmente favorita da ben note forze politiche che tentano attraverso le indagini (in assenza di sentenze di condanna) di scardinare i risultati elettorali (è un dato storico che con Tangentopoli il PCI e i DS si sono consegnati ai pubblici ministeri, ai quali hanno affidato il compito di liberare l’Italia dai democristiani e dai socialisti).
Credo sia davvero venuto il momento di dar luogo ad una riflessione più approfondita, che muova da riforme condivise (anche a prescindere dai 5Stelle, che oggi sono la massima espressione del giustizialismo populista e della lotta ai principi costituzionali della presunzione di innocenza) dell’ordinamento giudiziario e della pubblica amministrazione, posto che solo in questa ipotesi può di nuovo trovare dignità “la politica” (su questo, però, resto molto pessimista).
In realtà, bisogna capire che non sono le istituzioni ad essere inaffidabili, ma gli uomini, anche perché la responsabilità penale è sempre personale, e non può travolgere un sistema che in questi anni ha assicurato, pur tra molte contraddizioni, diritti e garanzie.
Il caso del Qatargate è sintomatico, grazie all’idea che alcuni irresponsabili hanno dato dell’Italia all’estero, questo è stato subito definito dalla stampa dei Paesi del Nord Europa come italian job, quasi a ritenere che il presunto (ad oggi) sistema di corruzione sia stato importato nel Parlamento europeo dagli italiani (con il concorso dei greci).
Gli organi di informazione italiani, nel vortice del circolo mediatico di cui conosciamo i pericolosi effetti (di recente denunciati anche dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio), contribuiscono ad accrescere questa percezione, con il contributo di forze politiche che intendono trarre vantaggio dalle inchieste ancora in corso. Sarebbe il caso di essere seri: la pubblica opinione non è di certo immacolata, se è vero che oggi ci sono più cittadini impegnati ad aggirare le norme che a rispettarle; il sistema giudiziario dovrebbe, senza difese corporative, riflettere sulle sue carenze ed indicare vere prospettive di riforme; la politica dovrebbe pensare ad una altrettanto seria riforma delle istituzioni, che muove dal meccanismo elettorale e dalla selezione della classe dirigente.
Tornando all’Europa, si deve evitare che l’inchiesta in corso – seguendo l’esempio italiano di cui innanzi si è dato conto – possa trasformarsi, sotto la spinta di attori maligni legati a Stati autocratici, in un attacco a quel presidio di democrazia e di libertà che, sia pure tra evidenti difetti, è il Parlamento europeo, se non si vuole trasformare la storia in farsa.
Giuseppe Fauceglia