La tecnica legislativa ha subito un’involuzione, il ritmo legislativo è divenuto incalzante, spesso spaesante”. Nella stessa prospettiva si è posta anche la Relazione del Procuratore Generale della Suprema Corte, Luigi Salvato, il quale, oltre che denunciare la tendenza, di cui innanzi, ha ribadito che “compito della giustizia penale è di giudicare i fatti e non di processare la storia”, richiamando la funzione giurisdizionale del pubblico ministero, in cooperazione con gli altri “attori” del processo, facendo seguire l’invito, motivato da ragioni di efficienza e di efficacia, a perseguire ipotesi di reato che presentino una qualche probabilità di successo, piuttosto che attardarsi in tesi accusatorie già ab origine prive di idonei riscontri (è il secolare principio della c.d. “prudenza accusatoria”, che è posta a presidio dell’operato della pubblica accusa).
In sostanza, da così alte espressioni del mondo giudiziario, pervengono indicazioni rivolte tanto ai componenti della giurisdizione che al legislatore. Si afferma che il processo non è uno strumento di lotta politica (risultato già evidente in alcune riflessioni di importanti giuristi, tra i quali Spangher, Fiandaca e Roppo), e che il legislatore non può emanare leggi, a volte contraddittorie, che non consentono al cittadino la chiara percezione del “precetto” da rispettare (con violazione finanche del principio costituzionale, di antica tradizione, della c.d. “tipicità” del reato) e che creano, nel loro stesso coacervo dispositivo, incertezze applicative, i cui costi sono, poi, sopportati dal “sistema giustizia” (cioè da tutti noi).
In questo quadro, non può essere sottaciuto che le stesse recentissime modifiche del processo civile, hanno comportato un vero e proprio “corto circuito”. Gli avvocati che hanno la mia età, si sono formati all’università sul codice di procedura civile riformato negli anni cinquanta, hanno poi dovuto studiare la riforma del 1990, in uno a tutte le altre mini-riforme che si sono succedute, ed ora devono studiare la Riforma Cartabia.
Eppure, in tutti questi anni gli utenti della giustizia e gli avvocati hanno incredibilmente constatato che nulla è cambiato, anzi la situazione è di gran lunga peggiorata (numero di arretrati decennali, disattenzioni burocratiche, ritardi nelle decisioni, ecc.). Pensare di risolvere gli arretrati sulla scorta di tante inammissibilità processuali (veri e propri trabocchetti che servono per non rendere giustizia, ma solo per eliminare il contenzioso) e non regolare la produttività del sistema, equivale a realizzare i presupposti di un sicuro insuccesso di ogni tentativo di innovazione.
In realtà, come ha notato Maria Masi Presidente del Consiglio Nazionale Forense, la riforma Cartabia ha collocato ai margini di un sistema funzionalmente e strutturalmente inadeguato, compresso da formalismi che tradiscono il vero compito del processo (che, come ricordava un grande giurista, Virgilio Andrioli, consiste “nel dare ragione a chi ha ragione e torto a chi ha torto”), proprio gli avvocati.
La tendenza, caparbiamente perseguita da più di un magistrato, è quella di avere finalmente un processo senza avvocati, sì che l’estensione della c.d. trattazione scritta, in luogo della c.d. trattazione in presenza, non solo per le udienze nelle quali risulta opportuna (nel processo ordinario di cognizione, ad esempio, la prima di comparizione parti) ma sostanzialmente per tutte, ha realizzato il sogno onirico di una “causa senza confronto” in cui il magistrato vive la pericolosa solitudine della “sentenza”.
Il tutto, poi, è reso ancora più pirandelliano dal famigerato “fascicolo telematico” (che belli quei fascicoli cartacei in cui i giudici sottolineavano o “piegavano” le pagine per tenerle in evidenza). Non possiamo guardare all’indietro, ma neppure si può correre spensierati e ridenti verso il precipizio !
Del resto, nel tentativo di dare una risposta alle indicazioni provenienti dall’Unione Europea da cui dipendono i finanziamenti del PNRR, sono state previste le figure (invero, un tanto amorfe) degli “ausiliari del processo o del giudice”, a volte affidate a neo laureati, digiuni di ogni esperienza e, finanche, di adeguate conoscenze. Si è, in tal modo, favorito un appesantimento dei giudizi, la cui soluzione – non lo si può negare – a volte è affidata proprio a queste nuove “figure”, con esiti non certo efficienti in termini di adeguatezza giuridica e fattuale della decisione (finendo, così, per appesantire il ruolo dell’appello).
Per evitare distorsioni occorre, invece, riformare la struttura dell’ordinamento giudiziario, le caratteristiche del processo sia civile che penale, piuttosto che attardarsi su meri “aggiustamenti” dei riti, che nell’esperienza storica hanno prodotto ben pochi risultati, se non quello di introdurre “quel labirinto di norme”, cui il Presidente della Suprema Corte di Cassazione ha fatto riferimento.
Giuseppe Fauceglia