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Qualche riflessione sull’assoluzione di Berlusconi (di G. Fauceglia)

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Quando negli anni passati mi sono recato per ragioni di studio in Germania, un amico professore universitario mi accolse, sorridendo, con la frase “Ma davvero l’Italia è il Paese del bunga bunga ?”.

La mia sorpresa non fu quella di una certa caduta di stile, che subito esclusi in ragione dell’amore del collega per il nostro Paese, ma del danno che all’estero era stata arrecato all’ Italia a causa delle innumerevoli indagini penali, che avevano coinvolto un Presidente del Consiglio.

Quelle indagini, con le relative ipotesi accusatorie – tutte rimaste infondate nei successivi giudizi di assoluzione – venivano amplificate dalla stampa nazionale e riprese da quella internazionale, in una regia denigratoria abilmente perseguita da una parte politica e finalizzata a sovvertire i risultati elettorali.

Ora, a parte ogni valutazione politica sulle vicende del Presidente Berlusconi, deve ripetersi che la funzione del giudizio penale non è quella etico-morale, ma quella di accertare – se esistente – la responsabilità personale.

Non può oggettivamente neppure negarsi l’impluvio delle indagini penali che in questi anni – sostanzialmente dalla sua discesa in campo nel 1994 – hanno riguardato Silvio Berlusconi, e tanto consente, con la necessaria onestà intellettuale, di porre una domanda sul rapporto, che in questi decenni ha avvelenato i pozzi delle nostre istituzioni, tra politica e magistratura inquirente.

Voglio, però, soffermare la mia attenzione sugli esiti del c.d. processo Ruby-ter, fortemente voluto dalla Procura della Repubblica milanese, che ha visto assolto Berlusconi. Sulla questione la stampa nazionale, nel deprecabile costume che ormai la caratterizza, ha offerto un resoconto monco, sul quale, poi, si sono inserite le solite notazioni di una parte della politica, che ha ritenuto fondarsi la sentenza assolutoria su un “semplice cavillo”.

A questo punto, è necessaria un’osservazione tecnica non secondaria. La sentenza si fonda sulla violazione di un principio cardine del processo penale, che tra l’altro non appartiene solo alla nostra tradizione giuridica potendo ritenersi “universale”: la norma processuale impedisce di obbligare qualcuno a testimoniare contro sé stesso. Da ciò discende la regola giuridica per la quale se una persona è potenzialmente indagata non può essere qualificata come testimone e ha il diritto di tacere.

Quando i pubblici ministeri fecero le indagini sono state interrogati come testimoni delle persone che testimoni non potevano essere, in quanto l’ipotesi accusatoria o investigativa riguardava anche la loro personale responsabilità penale. Invece, la Procura ha fatto assumere a queste persone la qualifica di testimoni, violando il principio normativo, ovvero facendo discendere dal loro silenzio la presunta responsabilità di Berlusconi. Non un “cavillo” da avvocati, ma la constatata violazione, assunta come determinante da un giudice “terzo” (quale resta il Tribunale), di una rilevante norma processuale.

Il lungo iter processuale, durato quasi un decennio, ha riguardato l’imputato Berlusconi, che ha potuto difendersi anche grazie alle sue risorse economiche, ma bisogna chiedersi quale sarebbe stata la “resistenza” di un semplice cittadino stritolato dal circuito mediatico-giudiziario. Ma soprattutto, come in altri procedimenti penali sempre su impulso dei pubblici ministeri milanesi (faccio riferimento al processo ENI, anche questo concluso con la completa assoluzione degli imputati), bisogna riflettere sull’enorme danno prodotto agli interessi dell’Italia e al discredito internazionale che ne è derivato. Di questo, in qualche modo, qualcuno dovrebbe, forse, rispondere!!

Giuseppe Fauceglia   

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