Già trenta anni fa Yitzhak Rabin e numerosi intellettuali notavano la contraddizione fra il sistema democratico delle regole e il persistere dell’occupazione. Se non si metteva mano alla questione palestinese in maniera transattiva, la crisi esterna avrebbe finito per logorare il modello interno.
Nel 2023, con il ritorno al governo di Benjamin Netanyahu alla guida di una coalizione di destra reazionaria, l’antico vaticinio si sta trasformando in realtà quotidiana. La questione palestinese è tornata in agenda, ma in termini di repressione delle proteste. Dall’inizio dell’anno non si contano le vittime fra le due parti. Se continua la tendenza, sarà l’anno più violento del decennio.
Il Governo autorizza la costruzione di nuovi alloggi nei Territori, così avviando la trasformazione degli avamposti in insediamenti. La formula due popoli – due stati, già di fatto contestata dalla coalizione, si fa progressivamente sempre meno praticabile, finché un giorno sarà dichiarata non più di attualità. Per quale assetto?
La democrazia interna rischia anch’essa di collassare sotto i colpi della polemica fra potere politico e potere giudiziario. Il Governo mira a depotenziare la giurisdizione: segnatamente la Corte Suprema per ridurne la facoltà di censurare le leggi che ritenga lesive delle norme fondamentali. In Israele non vige una vera e propria costituzione.
Gli Stati Uniti, sempre blandi nei confronti di quel paese, considerano del tutto fuori luogo le nuove annessioni territoriali. Avvertono i rischi del mettere in discussione l’equilibrio dei poteri, the balance of powers così caro al sistema americano.
Il Capo dello Stato Herzog, laburista, invita le forze politiche a trovare una soluzione di compromesso. E’ inquieto davanti alle manifestazioni che, di sabato, si tengono a Tel Aviv contro il progetto governativo. In un paese relativamente poco popoloso una piazza con centomila persone impressiona. Anche perché si tratta dei sionisti della prima ora, tendenzialmente laici e progressisti.
Il mondo industriale e finanziario è circospetto. Israele è la culla delle start-up, grazie alla combinazione di intelligenza interna e capitali esteri. Questi potrebbero trasferirsi altrove, se l’incertezza dei poteri divenisse endemica. A cominciare dai fondi americani, i più impegnati nel sostenere l’high-tech. Dal settore il bilancio statale ricava il 25% delle entrate fiscali. Una cifra ragguardevole.
Il quadro vede il combinarsi di due crisi. La lotta interna fra poteri e fra maggioranza e minoranza, con il Capo dello Stato che tenta di ripristinare l’unità nazionale attorno ai valori comuni. La lotta con i palestinesi, nonché le frizioni con la comunità arabo-israeliana, circa la non-soluzione della questione palestinese. Si allontana la prospettiva di integrare l’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo di reciproco riconoscimento fra Israele e alcuni paesi arabi.
La turbolenza in quell’angolo di Mediterraneo ha riflessi sul Mediterraneo centrale e sulle sorti d’Europa. Mai dimenticare che affondiamo i piedi nel mare comune, l’onda orientale può raggiungerci rapidamente.
di Cosimo Risi
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