Quelle monetine dell’Hotel Raphael (di Giuseppe Fauceglia)

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Era la sera del 30 aprile del 1993 quando una folla di persone, radunate innanzi all’Hotel Rapfael di Roma, da anni residenza romana di Bettino Craxi, lanciava contro il leader socialista monetine e pezzi di vetro, colpendo la sua auto con pugni e colpi di casco. L’episodio accadeva nel mezzo di venti giorni decisivi per la storia della nostra Repubblica: il 18 aprile del 1983 il referendum proposto dalla sinistra aveva abolito il sistema proporzionale, il 29 aprile erano arrivate alla Camera dei Deputati ben sei autorizzazioni a procedere nei confronti di Craxi e quattro di queste erano già state negate; lo stesso 30 aprile il segretario del PCI, Achille Occhetto, aveva tenuto nella vicina Piazza Navona un comizio e centinaia di militanti si erano poi trasferiti innanzi all’ Hotel Rapfael in attesa del segretario del PSI.

Nel mentre, da circa quattordici mesi, la procura di Milano indagava sul sistema di corruzione che aveva coinvolto l’intera sfera pubblica, e la frammentazione ormai consumata del vecchio blocco sovietico aveva introdotto elementi di instabilità internazionale che avrebbero, irrimediabilmente, comportato instabilità interna.

Il panorama imponeva la ricerca di un “colpevole”, in un contesto definito di “unilateralità di persecuzione”, e Craxi era stato identificato come capro espiatorio per la degenerazione partitocratica e affaristica che si riteneva riguardare l’intera vita pubblica italiana. Si realizzava, in tal modo, un miscuglio di giustizialismo e qualunquismo, che, in qualche modo, ancora oggi caratterizza la politica italiana, sia pure nella differente versione del populismo giustizialista.

L’alleanza, al tempo, sotterranea ed innaturale tra sinistra e destra missina, nonché l’idolatria nei confronti delle procure, nonostante il fumus persecutionis denunciato da molti giuristi, ha prodotto l’esito disastroso di un trentennio inconcludente.  Oggi assistiamo impotenti ad un sistema elettorale che più di ieri premia la fedeltà al leader del partito o del movimento, piuttosto che le competenze, da cui discende la ormai riconosciuta “non autorevolezza” della classe politica, cui si accompagna l’assenza di ogni adeguata “selezione” della rappresentanza.

L’attualità sembra crescentemente dominata dalla propensione a cavalcare le ondate di opinione militante, i risultati dei sondaggi, i social e i dibattiti televisivi. Non a caso, in questi trenta anni si sono imposti personaggi, alcuni molto discutibili, capaci di gestire o montare ondate di opinioni collettive. Per fare politica, in effetti, non serve più una militanza che fa maturare le esperienze personali, una piattaforma programmatica, un retroterra di pensiero culturale sia pure minimo, un apparato organizzativo o un radicamento territoriale.

Manca, cioè, ogni germe di razionalità e di riformismo o di disegno generale, in una deleteria combinazione di posture personali, strette tra l’ansia di apparire e quella di non essere dimenticati. Per questo la politica rimane vittima dell’opinione e dell’opinionismo di ogni genere, apparendo lo scenario di scialbi protagonisti afflitti dal dramma del “quanto dura”.

E’ allora necessario riflettere su come guarire da questo virus, per addivenire un consolidato consenso; ma questo può realizzarsi solo valorizzando quel germe di nuova politica che oggi si sviluppa nell’associazionismo cresciuto al di fuori della politica e che cresce nelle trame, anche periferiche, della società.

Giuseppe Fauceglia

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