In una lingua di terra stretta fra il Mediterraneo, ma senza le imbarcazioni per varcarlo fino in Europa, l’Egitto e Israele, le frontiere chiuse, le gallerie sotterranee che appena scavate sono fatte saltare dagli Israeliani, un milione e passa di Palestinesi si accalca senza speranza. Come scrive il quotidiano Haaretz, la sola speranza di molti giovani è di combattere per farla finita al più presto, l’avvenire ha il sapore del nulla.
Le fazioni palestinesi si dividono. Hamas, il gruppo maggioritario, tenta ripetutamente la riconciliazione con l’Autorità Palestinese di Cisgiordania. Hamas è contestata dalla Jihad islamica, nella gara a chi si mostra più intransigente nei confronti del nemico sionista.
Nella battaglia di questi giorni la Jihad è protagonista, intende apportare il massimo turbamento possibile alla vita civile israeliana e trascinare tutte le componenti nel conflitto. Uno scoppio generalizzato, una reazione sproporzionata da parte del Governo di Gerusalemme, l’attenzione dei Fratelli Arabi. Specie delle Monarchie del Golfo che, finanziando gli abitanti della Striscia, ritengono di aver adempiuto al dovere di solidarietà.
Un militante della Jihad si lascia morire in carcere con lo sciopero della fame. Si innalza la protesta. Israele procede agli assassini mirati di alcuni dirigenti del movimento. I razzi partono a centinaia verso le città meridionali fino a Tel Aviv. Buona parte è intercettata dal sistema anti-missilistico, alcuni colpiscono i bersagli. L’IAF, Israeli Air Force, martella gli obiettivi militari, lo spazio è risicato, gli effetti collaterali sono inevitabili. Sale la protesta internazionale. Gli Stati Uniti invitano Israele alla de-escalation. L’Egitto manda i mediatori. Finora i colloqui non sortiscono effetto.
L’effetto immediato è che il Governo Netanyahu si ricompatta attorno al Primo Ministro, le proteste di piazza contro il golpe giudiziario si tacitano, la patria è in pericolo, l’unità è necessaria.
Il mondo mediorientale scopre la fluidità dopo decenni di apparente immobilità. Si è detto degli Accordi di Abramo. Si è detto della ripresa dei rapporti diplomatici fra Arabia Saudita e Iran, grazie alla mediazione cinese. La Cina è l’attore principale del nuovo cartellone. Starebbe financo allestendo una base militare negli Emirati Arabi Uniti. La Russia si contenta per ora di avere tenuto in sella il Presidente siriano Bashar al-Assad: Damasco sta per essere riammessa nella Lega Araba.
L’Unione europea è sullo sfondo: continui nella diplomazia declaratoria e nella distribuzione dei fondi. Gli Stati Uniti sono in pausa di riflessione se non di ripiegamento.
Dopo la prova dell’Afghanistan ed il rifiuto di difendere militarmente gli EAU quando furono attaccati dai droni iraniani, gli Stati Uniti riconsiderano la strategia globale. I punti di crisi sono altrove: a Mosca e Pechino. Il Medio Oriente e l’Europa pensino progressivamente a difendere sé stessi, ne hanno i mezzi.
Lo schema non differisce molto fra le varie Amministrazioni. Pivot to Asia, obiettivo Asia: la priorità di Barack Obama si ripete con Donald Trump e Joe Biden.
Non che il Medio Oriente sia privo d’interesse. A dirla con un suo diplomatico, Washington bada a tre punti: continuare la lotta al terrore, DAESH e Al Qaeda sono sconfitti e non debellati; tenere aperte le vie del traffico di idrocarburi, petrolio e gas continuano ad alimentare le economie occidentali; prevenire la diffusione delle armi nucleari, la proliferazione è un’obiettiva minaccia alla pace.
Volodymyr Zelenskyj avverte che l’Iran aiuta la Russia nel conflitto in Ucraina, in cambio chiede l’aiuto per la tecnologia nucleare. Per dotarsi della Bomba: lo spauracchio dei nostri tempi.
di Cosimo Risi