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Il pluralismo e la battaglia della cultura (di G. Fauceglia)

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Durante un mio breve soggiorno in Francia ho avuto modo di leggere due libri di recente pubblicazione: il primo di Romain Descendre e Jean-Claude Zancarini, “L’oeuvre-vie d’Antonio Gramsci”, éditions La Découvert, il secondo di Hervé Joubert-Laurencin, “Le Grand Chant Pasolini. Poète et cinéaste”, éditions Macula. Non mi sono tanto meravigliato della “scoperta” da parte di autori francesi dell’opera di Antonio Gramsci e di Pier Paolo Pasolini, per altro neppure recente, quanto delle conclusioni che ho tratto da una lettura “simmetrica” dei due libri.

E’ emersa una visione complessiva affidata a due autori, così diversi tra loro, ma entrambi “eretici” rispetto alla narrazione che delle loro opere ha offerto una parte consistente degli intellettuali di sinistra in Italia. Per Gramsci non solo è ormai noto l’isolamento nelle carceri fasciste da parte dell’allora dirigenza del Partito Comunista d’Italia (in gran parte riparata in Unione Sovietica), in ragione della novità delle sue analisi (che si possono leggere nei “Quaderni del Carcere”, sulle cui diverse edizioni – quella degli Editori Riuniti e quella della Einaudi –andrebbe sviluppata una più approfondita analisi) rispetto all’ortodossia leninista e della III Internazionale.

Per Pasolini è possibile verificare il crescente distacco, rinveniente in gran parte delle sue opere, dalle analisi di una certa sinistra italiana. Si tratta di due autori che ancora oggi dimostrano quella particolare tendenza della cultura a sottovalutare opinioni e costruzioni teoriche che non rispondono al clichè del conformismo di sinistra.

Ciò consente di porre al centro di queste riflessioni la battaglia della cultura in un sistema pluralista, quel pluralismo delle idee che è stato negato al Salone del Libro di Torino. La questione del pluralismo non può essere, con eccessivo semplicismo, essere superata ricorrendo all’argomento che prima per cinquant’anni l’Italia è stata governata dalla Democrazia Cristiana, che avrebbe controllato la moralità pubblica attraverso la RAI, e poi da Berlusconi, il quale, anche quando non era al governo, con le sue televisioni avrebbe plasmato il modo di fare opinione.

In realtà, una egemonia della sinistra, fortemente radicata nelle Università e nell’editoria, si è venuta consolidando da quando la stessa Democrazia Cristiana si è disinteressata della cultura, cedendola al Partito Comunista. Basti pensare all’influenza che, ad esempio, sui giovani magistrati degli anni ottanta e novanta, ha avuto la rivista “Democrazia e Diritto”, sulle cui saggi è stato costruito l’impianto delle a volte “troppo innovative” interpretazioni delle “norme” in sede giudiziaria.

In realtà, proprio questa egemonia della sinistra ha finito, con il tempo, per provocare il restringimento delle opportunità di un pensiero diverso, che si è in effetti prosciugato. Per superare questa squilibrio è necessario che la destra, vittoriosa nelle elezioni, guardi al merito, lo ricerchi e lo imponga sulle logiche dell’appartenenza, nel tentativo non già di “cancellare” le voci diverse, ma di aggiungerne a queste altre, di nuove.

Non può negarsi che l’egemonia della sinistra si è fondata sul coinvolgimento di personalità di alta qualità, impegnandole in posti in cui avrebbero potuto essere “utili”. Se guardo, con sufficiente distacco, il panorama dell’attuale destra scorgo soltanto persone di risulta (quelli che sono abituati a fare il salto della quaglia) o legati alla vecchia tradizione del conservatorismo storico (quasi revanscista), con poca apertura verso le diverse culture liberali, che pure albergano nel dibattito culturale italiano.

Proprio per questo, non è solo sufficiente vincere le elezioni, ma occorre costruire un complesso di idee e di programmi che, muovendo dalle Università e procedendo per gradi nelle altre istituzioni, offra una prospettiva diversa, capace di esprimere una visione del mondo più consentanea al momento storico che stiamo vivendo.

Giuseppe Fauceglia

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