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Assemblea Pubblica Confindustria Salerno: Abstract della Relazione del Presidente Antonio Ferraioli

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Quella che ci aspetta è “una ripresa ancora fragile”. Le ultime previsioni, contenute
nell’Economic Outlook dell’Ocse, infatti ipotizzano che il Pil globale dovrebbe ridursi
quest’anno al 2,7% dal 3,3% del 2022, prima di raggiungere un ancora modesto 2,9% nel
2024. A causare incertezze e timori, la spirale inflazionistica e i riflessi di una guerra alle
porte dell’Europa che non accenna, purtroppo, a finire.
Per l’Italia, e più in generale per l’Europa, è sempre l’Ocse a tracciare la strada per
riagganciare lo sviluppo: la crescita sarà robusta se, e solo se, presto e bene saranno
recuperati i ritardi nell’attuazione dei progetti di investimento pubblico del PNRR che –
va ricordato – con risorse pari a 209 miliardi di euro deve servirci per uscire dal contingente
e tornare ad avere finalmente una visione futura di ciò che vogliamo diventare.
Il rilancio di investimenti, riforme e produttività sarà però reale e possibile solo se
riusciremo a ridurre le grandi disuguaglianze che lacerano il Paese dall’interno, dividendolo
per generazioni, genere e territori, irrobustendo quindi le infrastrutture dell’istruzione,
della sanità, delle reti di assistenza pubblica, puntando – al contempo – al raggiungimento
della neutralità climatica.
Ma questa strada, di certo non lineare né facile, per ora l’abbiamo solo imboccata. Quei
progetti che dovrebbero imprimere un’accelerazione alle transizioni digitale e verde,
integrandole tra loro per una crescita equa e sostenibile, tardano a tradursi in cantieri,
mentre il tempo, inesorabile, scorre.
Siamo di fronte a trasformazioni planetarie, che devono imporci un rovesciamento di
prospettiva su più livelli: economico, sociale, culturale, scientifico, tecnologico, umano.
Stiamo transitando, e se è vero che nella vita niente deve essere temuto ma solo compreso,
è tempo di capire di più cosa sta accadendo, in modo da temere di meno.
In passato come Paese e sistema produttivo, è stato sufficiente adattarsi per rispondere a
nuove istanze e sollecitazioni. Questa reazione, ora, non basta più. È tempo di cambiare

pelle davvero, di mettere mano a riforme strutturali e scelte pubbliche coraggiose e non
solo perché ce lo chiede l’Europa.
D’altra parte, però, dovrebbe essere chiaro a tutti che una transizione green non è né gratis,
né tanto meno indolore. Dopo anni di politica del “no”, siamo passati a un pensiero di
propaganda salvifica; posto che dobbiamo tutti fare la nostra parte per un mondo migliore,
non possiamo non riconoscere che le transizioni comportano opportunità certo, ma anche
tanti rischi che impatteranno – con durezza – sulle vite di tutti e lo faranno nel breve
periodo.
La transizione green, ossia l’indifferibile necessità di ridurre l’impronta ecologica delle
attività umane per non compromettere del tutto il futuro della vita sul Pianeta, è un
processo di notevole impatto che richiede capacità d’indirizzo e di disegno complessivo.
Le imprese stanno dimostrando di esserci. Stanno, via via, raccogliendo la sfida della
sostenibilità a tutto tondo. L’Industria 5.0 – humancentric e sostenibile – segna un’epoca
di trasformazione radicale, in cui le attività in ambito ESG non sono più scelte velleitarie
ma decisioni determinanti.
Indiscutibile ormai l’importanza strategica di questo riposizionamento, chiara pure la
convenienza: secondo Symbola, le aziende che fanno investimenti in campo ambientale –
pari a circa il 40% – sono sempre più forti, producono, esportano e ottimizzano di più,
rispondendo compiutamente alle esigenze dei clienti che reputano di maggior valore quelle
realtà che tengono conto del rispetto dell’ambiente.
Non solo brevetti e cambi di statuto societario, ma tecnologie e nuovo approccio alla
produzione: molte delle nostre aziende oggi fanno dell’economia circolare un concetto
guida che ci consente di essere il Paese più circolare tra le prime 5 economie dell’Unione
Europea (Rapporto nazionale sull’economia circolare, realizzato dal Circular Economy Network in
collaborazione con ENEA e con il patrocinio della Commissione Europea, del ministero dell’Ambiente
e della Sicurezza Energetica e del ministero delle Imprese e del Made in Italy).

Primato che oggi, in nome di una presa di coscienza europea ideologica e aprioristica, è
seriamente in pericolo. Ci riferiamo, ad esempio, al Regolamento della Commissione
europea sugli imballaggi che discrimina gli imballaggi in plastica rispetto a quelli
realizzati con altri materiali, senza alcuna plausibile giustificazione.
Nel caso del riciclo degli imballaggi, invece, siamo i più virtuosi: nel 2021 abbiamo
superato – per la sola componente imballaggi – il traguardo europeo del 65% del riciclo
totale entro il 2025, arrivando a quota 73,3% (dati Conai).
Così come concepito, il Regolamento Europeo – oltre che farci arretrare sulla strada della
sostenibilità facendo parti uguali fra paesi diseguali – metterebbe a repentaglio l’industria
che funziona e che vale. Nel Salernitano parliamo di realtà che fatturano circa un miliardo
e di almeno 5000 posti di lavoro, compreso l’indotto. In più qui da noi il comparto
chimico/plastico lavora molto per l’alimentare, sulla cui competitività pesa in modo deciso
anche il costo dell’imballaggio (quarta gamma ad esempio).
Piuttosto che fare passi indietro, si potenzi la creazione di un mercato funzionante di
materie prime seconde – come pure qui Salerno nel nostro piccolo stiamo provando a
fare – finanziando soluzioni innovative di re-manufacturing e de-manufacturing, capaci di
mettere insieme elevata efficienza dei materiali con alta riciclabilità e uso di materiali
riciclati.
Le imprese questo chiedono. Crescere.
Prendiamo inoltre la scelta dell’Europa di stabilire lo stop alla vendita delle auto a
motore endotermico entro il 2035 in favore dell’elettrico. Come si fa a pensare che
questa sia una decisione giusta in assoluto se per il nostro Paese significherebbe mettere
sotto scacco definitivamente il comparto della componentistica? Non dimentichiamo che

l’auto rappresenta lo 0.9% delle emissioni mondiali, a fronte di 12 milioni di addetti nel
solo continente europeo (fonti Anfia).
Le transizioni dovrebbero essere guidate da un principio di neutralità tecnologica, senza il
predominio esclusivo di una tecnologia sulle altre. Non possiamo pagare noi tutto e subito
uno squilibrio di anni.
Chiediamo, pertanto, all’Europa di cambiare posizione, mitigandola.
Anche sull’energia siamo sulla buona strada, ma procediamo troppo lenti rispetto alla
tabella di marcia dell’accordo di Parigi. Al 2030 dovremo avere, nel mondo, 10mila
gigawatt di rinnovabili. Oggi ne abbiamo appena 3mila. Per il nostro Paese – che proprio
oggi 30 giugno – dovrà presentare alla Commissione europea il nuovo Piano Nazionale
Integrato Energia e Clima (Pniec), con l’ambizioso obiettivo di riduzione delle emissioni
al 2030 del 51% indicato dal precedente governo, essenziale sarà adottare anche in
questo caso il principio della neutralità tecnologica, massimizzando il contributo
di tutte le tecnologie rinnovabili disponibili e mature, investendo sull’innovazione e
la ricerca, potenziando le reti e le interconnessioni tra i paesi, le varie tipologie di sistemi
di accumulo e puntando con decisione sulle comunità energetiche. Per farlo la premessa
necessaria è eliminare gli ostacoli ancora presenti, snellendo procedure autorizzative
troppo complesse e norme poco chiare.
Parallelamente alla transizione green corre quella digitale, trasversale a molti settori e
indispensabile per integrare tra loro obiettivi di contrasto ai cambiamenti climatici a
traguardi di inclusione dei più fragili nelle società avanzate.
Il 65% degli obiettivi del PNRR è teso proprio a trasformare l’Italia strutturalmente
attraverso la digitalizzazione e l’innovazione.
Attenzione, però, anche qui ai gap che nel frattempo vanno risolti. Siamo al 18esimo
posto su 27 Paesi UE nell’Indice Desi (Digital Economy and Society Index), usato per

valutare e confrontare il livello di digitalizzazione dell’Unione, e al 24esimo posto per le
competenze digitali di base. Ancora più indietro rispetto agli altri – al 25esimo
posto – per la nostra capacità di dialogare in modo digitale con la PA (solo il 40%
dei cittadini italiani contro il 65% degli europei).
Oltre a semplificazioni e incentivi per l’attrazione degli investimenti, va rilanciato con
forza pertanto il piano Transizione 4.0, oggi 5.0, finanziato con le risorse PNRR.
Deve restare il faro per sostenere la twin transition delle imprese.
Il settore manifatturiero, da sempre il driver più importante della nostra economia,
rappresenta un quinto del Prodotto interno lordo italiano che va non solo difeso, ma fatto
crescere. E sono proprio le soluzioni digitali uno degli strumenti più importanti per
rilanciare la competitività che, non a caso, risultano la leva principale su cui la
Commissione Europea spinge.
A nostro avviso, tenuto conto che gli incentivi ai macchinari tradizionali sono destinati a
calare, andrebbero destinati maggiori fondi per creare un vero ecosistema digitale con
sistemi software capaci di mettere in comunicazione tra loro più impianti, stabilimenti e
fornitori, ottimizzando tutti i processi aziendali, in un flusso costante di dati che collega
macchinari, persone e sistemi.
Siamo pronti come imprese ad affrontare il nuovo e il possibile. Lo stiamo dimostrando
anche sperimentando nuove tecnologie che possono migliorarci la vita, tra cui appunto
l’intelligenza artificiale, cui oggi qui riserviamo uno spazio dedicato.
Sappiano fin da ora, perché così è sempre stato, che ci sarà un prima e un dopo, che ci
saranno molte nuove occupazioni, mentre molte altre andranno perse e fin da ora occorre
farsi carico di chi da questa rivoluzione potrebbe essere tagliato fuori.

Che il dibattito si concentri su questo allora, prima che sia troppo tardi ancora una
volta.
Ma che società attraversano queste due transizioni?
Come più volte rimarcato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la struttura
demografica italiana manifesta uno squilibrio che deve richiamare l’attenzione.
Superfluo sottolineare quanto influisca anche sul mercato del lavoro: stando alle analisi
della Svimez, entro il 2040 si ridurrà di 6 milioni e, guardando da vicino la nostra regione,
nel 2070 la Campania avrà un milione e mezzo di residenti in meno, vale a dire che
spariranno tutte insieme un numero di persone pari alle popolazioni odierne di Irpinia,
Sannio e della provincia di Caserta.
40mila laureati che ogni anno se ne vanno dovrebbero essere il rimorso della
politica e, al contempo, l’obiettivo centrale delle politiche di sviluppo perché – dice
bene il direttore generale di Svimez Luca Bianchi – «ognuno di quei giovani è un pezzo di
Pil che se ne va».
Anche qui centrale, oltre al lavoro, è il tema dei servizi. I giovani che restano al Sud
al massimo mettono al mondo figli che resteranno unici perché meno del 20% dei bambini
di età compresa tra 0 e 3 anni ha un asilo nido, perché appena un terzo dei bambini che
frequenta la scuola elementare ha il tempo pieno. Eppure, con filiere più corte e con il
potenziale che le transizioni digitale e green possono generare, trattenere le nostre
migliori energie è determinante per rimettere in gara il nostro Mezzogiorno.
Altra questione meritevole di maggiore attenzione – cui lo scorso anno abbiamo dedicato
la nostra Assemblea – è il riposizionamento delle competenze. Il perdurare del
mismatch tra domanda e offerta di lavoro, sommato alla difficoltà di reperire candidati, ci
convince ancora di più di quanto sia necessaria la nostra scelta di investire nel nostro
nuovo ITS, Istituto nell’Area Nuove tecnologie per il Made in Italy–Sistema agroalimentare,

nato dalla Fondazione TE.LA.-ITS presieduta dal presidente del
nostro Gruppo Alimentare Sabato D’Amico e sostenuta da un ampio e qualificato
partenariato.
Crediamo molto in questo strumento perché risponde in modo compiuto alla necessità
della filiera dell’agroindustria di reperire profili professionali con competenze aderenti ai
nuovi paradigmi green e digitale e, al contempo, all’esigenza economico-sociale di creare
occasioni di occupazione stabile e di qualità per i nostri giovani.
Non solo i giovani. Nella nuova occupazione che le transizioni dovrebbero generare, è
tempo che le donne trovino posto. Quello spazio che oggi ancora non hanno.
Le transizioni sono la straordinaria occasione per gettare le basi per un ordine mondiale
più equo, opportunità che possiamo cogliere solo uscendo – tutti insieme e con
consapevolezza – dalla logica dell’uno contro l’altro, avviando con serietà un programma
strategico che imponga di ragionare in termini di nuove fonti, catene del valore, tecnologia,
sviluppo, crescita.

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