Il doppio registro del sovranismo (di Cosimo Risi)

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Il Consiglio europeo di giugno si chiude con un nulla di fatto sulla politica migratoria, il punto su cui la delegazione italiana ha investito per porsi al centro del dibattito europeo. Questa è l’aspirazione della Presidente del Consiglio. Al Parlamento italiano, prima del vertice,  adopera espressioni  forti su PNRR, MES, Patto di Stabilità: per chiarire che l’Italia, a Bruxelles,  avrebbe tutelato l’interesse nazionale.

Nell’Europa Building, la centralità consiste nel tentativo di mediazione da lei esperito, su malizioso incarico del Presidente Charles Michel, con Mateusz Morawiecki e Victor Orban. Polonia e Ungheria, in minoranza al Consiglio Affari Interni sul nuovo patto migrazione e asilo, rilanciano la riserva delibando l’argomento al Consiglio europeo.

La vicenda ha i tratti tristi di quando il processo d’integrazione si frange sull’interesse nazionale, il dogma dei partiti nazionalisti divenuto la bussola dei governi loro espressione. L’insuccesso della mediazione è commentato dalla mediatrice con parole di comprensione per i riottosi: tutelano i loro interessi nazionali sulla clausola della solidarietà obbligatoria.

Lo scontro fra gli interessi nazionali porta alla paralisi del processo decisionale. Nell’Unione l’interesse nazionale andrebbe sublimato nell’interesse europeo, e cioè nel compromesso necessario a cedere qualcosa in cambio di qualcos’altro. Per Polonia e Ungheria sarebbe il vantaggio di rimettersi nella carreggiata dell’ortodossia dei diritti, ambedue i paesi essendo oggetto di procedure di violazione degli stessi.

Ma non importa, le elezioni politiche sono prossime in Polonia, dove i centristi di Donald Tusk, già Presidente del Consiglio europeo, incalzano il partito di maggioranza. Su tutti i partiti incombe la scadenza delle elezioni europee 2024. Circola l’ipotesi di scalzare al Parlamento europeo la tradizionale intesa Popolari-Socialisti a favore del connubio fra Popolari e Conservatori. Solo che gli stessi Popolari,  a fronte delle riserve di Polonia e Ungheria, ripensano all’idea  del loro capogruppo Martin Weber.

Nei sondaggi i partiti facenti capo al modello liberaldemocratico macroniano sarebbero l’ago della bilancia. Mai, nelle parole del Presidente dell’Unione Federalisti Europei, si piegherebbero all’intesa con i Conservatori Un bel pasticcio o, per dirla con il titolo di un vecchio film di Roman Polansky, “un cul-de-sac”.

Victor Orban si fa anche notare per il dissenso sulla politica a favore dell’Ucraina. Il sostegno a lungo termine promesso dalla Commissione lo vede scettico. Se si tratta di finanziare la campagna di Kiev, prima vorrebbe conoscere come sono stati spesi i 70 miliardi già concessi. Le critiche alla spesa facile in Ucraina vengono dagli stessi ucraini, ne sono segno le dimissioni a catena  di esponenti di governo per le accuse di corruzione.

La vicenda ucraina s’intreccia con la russa. Allo scoppio del conflitto, le fonti di intelligence, specie di marca britannica, dipingevano un Presidente di Russia debole se non seriamente malato: comunque inidoneo a portare avanti una campagna militare manifestamente infausta per l’Armata Russa.

Ora che la sedizione del Gruppo Wagner è fallita in maniera ancora indecifrabile, tutti a tirare un sospiro di sollievo. Vladimir Putin appare saldo in sella, pronto a ripulire la leadership politica e militare dagli elementi sgraditi, deciso a sciogliere le milizie private a favore del monopolio statale della forza. Deve avere letto la Politica come vocazione di Max Weber.

L’Alto Rappresentante Josip Borrell, che pure dava credito ai rapporti dei Servizi, preferisce una Russia diretta in maniera riconoscibile ancorché ostile ad una Russia in ostaggio di bande armate. Nessuno al mondo osa immaginare un gigante nucleare dalla guida incerta e soprattutto imprevedibile.

Putin è l’usato sicuro. Prigozhin o altri aspiranti leader sarebbero la novità da incubo nucleare. Se questo è il comune convincimento, tanto varrebbe intavolare uno straccio di trattativa con il potere generalmente riconosciuto a Mosca invece di vagheggiare il cambio di regime. Non eterodiretto, la Russia non è l’Iraq di Saddam Hussein, ma a produzione interna.

A capirlo con una dose di realismo è la diplomazia della Santa Sede. Il suo emissario incontra prima Zelenskyj, poi il Patriarca Kirill e il Consigliere di Putin.

di Cosimo Risi

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