Il Ministro dell’Economia, da tradizione, ammonisce che i margini di spesa sono risicati per frenare gli impulsi a spendere da parte dei singoli Ministri e Parlamentari, ciascuno in cerca di vantaggi per i rispettivi referenti. La rotta va coordinata con la Commissione, che ha titolo a presentare proposte di modifica se il disegno di legge sia in contrasto con le regole europee.
Il Patto scade il 31 dicembre 2023. Se non sarà riformato, tornerà in vigore il “vecchio” Patto con le relative restrizioni. Queste furono sospese nel 2020 per consentire le politiche espansive di contrasto alla recessione da pandemia.
La proposta della Commissione sul nuovo Patto modifica il quadro esistente in maniera importante, pur mantenendo i limiti del 3% per i deficit di bilancio e del 60% per i debiti pubblici. La riforma mira alla maggiore responsabilità dei Governi nel definire le politiche di bilancio e nello scegliere le riforme da attuare. Di fatto prevede ampi margini di azione per la Commissione, con lo strumento dell’analisi di sostenibilità dei debiti.
E’ un criterio di flessibilità ma anche di eccessiva discrezionalità. Questa è l‘opinione degli stati membri rigoristi. I soliti nordici vorrebbero obiettivi quantificabili eguali per tutti e, ovviamente, all’insegna del rigore: la Germania spinge per la riduzione dell’1% del debito a carico di tutti gli stati membri. Al contrario alcuni stati membri del sud vorrebbero maggiori margini di flessibilità, ad esempio escludendo dal novero delle spese da ridurre quelle relative agli investimenti per le transizioni energetica e digitale.
Gli schieramenti si ripropongono ogniqualvolta si affronta il tema delle spese. A complicarlo interverrà il cambio in corsa della Commissione. L’attuale scadrà a metà 2024, in corrispondenza della nuova legislatura europea. Non è detto che la prossima sia più aperta, né che il portafoglio degli affari economici sia affidato ad un italiano, oggi è Paolo Gentiloni.
Comunque vada il negoziato europeo, è impellente per l’Italia una certa disciplina di bilancio, il che contrasta con le facili promesse delle elezioni 2022 e con la prospettiva di presentarsi generosi alla scadenza 2024. E’ parimenti essenziale che utilizziamo appieno le risorse di Next Generation EU, i ritardi nell’attuare il PNRR rendono improbabile che strumenti analoghi di debito europeo siano attivati in futuro.
Si rianima la campagna sulle spese militari. Il tetto del 2% del PIL, approvato dalla quasi totalità del Parlamento nel 2022, è messo in discussione. Per l’opposizione sarebbe il caso di rivederlo. L’argomento serve più a strizzare l’occhio ad un’opinione pubblica genericamente pacifista che alla seria riconsiderazione dell’impegno.
Non vale argomentare che la spesa militare possa essere ridotta perché interverrà la difesa comune europea. Semmai è vero il contrario: l’autonomia strategica europea costerebbe di più dell’ombrello di sicurezza garantito dalla NATO (dagli Stati Uniti).
La diatriba sulle spese militari avrebbe l’obiettivo immediato di ridurre gli stanziamenti a favore della Difesa. Una scelta quanto meno singolare mentre il conflitto continua ad infiammare l’Europa orientale e con l’Africa in subbuglio.
L’attenzione si sposta dalla Libia ai paesi subsahariani. Dopo il Niger è il turno del Gabon a conoscere un colpo di stato. Niger e Gabon sono nostri “vicini”. Dall’Africa Nera parte buona parte dei migranti in cerca di fortuna dalle nostre parti. L’instabilità africana favorisce i flussi. Intervenire in quell’area con tutta la strumentazione a disposizione aiuterebbe a frenarli alla radice.
di Cosimo Risi
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