In particolare a svuotarsi sono i pronto soccorsi e i reparti nevralgici degli ospedali del Nord, con particolare riferimento all’Emilia Romagna e alla Liguria, che vivono in questo momento la drammatica realtà di una vera e propria fuga di infermieri.
Decine e decine di operatori sanitari, dal 2022 a oggi, hanno rassegnato e continuano a rassegnare, giorno per giorno dimissioni volontarie.
Questa volta i numeri, davvero preoccupanti, evidenziano, da una parte, un pericoloso percorso di abbandono volontario, con rinuncia anche a contratti a tempo indeterminato nella sanità pubblica, per scegliere, chi decide di restare nel mondo della sanità opta per questa soluzione, una libera professione che consente ritmi di lavoro meno stressanti e soprattutto la possibilità di “prendersi maggiormente cura” della propria vita privata e dei propri familiari.
Gli ultimi mesi, neanche a dirlo, ancora una volta i più difficili per la sanità pubblica italiana, raccontano di una vera e propria fuga volontaria di infermieri dal Nord verso il Sud.
Insomma, molti professionisti decidono di tornare nelle proprie terre di origine, optano per una soluzione drastica, spesso loro malgrado, che gli consenta, in particolar modo, di far fronte a spese quotidiane che nel Mezzogiorno sono decisamente meno pesanti.
Non è più, quindi, solo una questione di turni massacranti causati dalla carenza di personale, e di realtà sanitarie che gli negano da tempo addirittura le ferie: al nord come al sud cambia ben poco, ma è il costo della vita ad essere più basso.
La situazione degli ospedali del Sud non è quindi certo migliore, le difficoltà sono le medesime, il caos dei pronti soccorsi è lo stesso, peggiore e insostenibile è la situazione delle violenze perpetrate durante le ore notturne ai danni degli operatori sanitari, quando non ci sono presidi di pubblica sicurezza attivi, con la Campania che rimane ai primissimi posti per numero di aggressioni.
La verità che si nasconde dietro questa fuga è una e una sola : lo stipendio medio di poco più di 1400 euro netti, escluse le premialità e gli straordinari, non consente ad un giovane infermiere di mantenersi in una città come Bologna o come Genova. Impossibile arrivare a fine mese, con l’aumento del costo della vita a pesare come ogni giorno come un macigno. Immaginate poi, se questi infermieri originari del Sud, sono over 30 e hanno anche famiglia e figli a carico, e c’è un solo stipendio su cui contare.
Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up.
«Se nel 2022 avevamo evidenziato una situazione preoccupante per regioni come Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Veneto, con ben 1530 dimissioni di operatori sanitari, proprio in Friuli, negli ultimi tre anni, per la maggior parte infermieri, adesso nell’occhio del ciclone ci sono l’Emilia Romagna e la Liguria.
I numeri in particolare dicono che all’Ausl di Bologna, solo negli ultimi giorni sono arrivate, come un fulmine a ciel sereno, ben 18 dimissioni volontarie, tutte insieme, oltre tutto senza preavviso, da parte di infermieri (si registrano ben 40 dimissioni negli ultimi 3 mesi). Un dato che non può non essere inquadrato come assolutamente allarmante. Lo scorso anno dall’azienda sanitaria bolognese sono usciti 270 infermieri, mentre nel 2021, erano stati 180. In piccola parte, solo in piccola parte, si tratta di pensionamenti programmati, mentre per oltre il 50% siamo di fronte a dimissioni volontarie.
Sono le stesse direzioni sanitarie a mettere in evidenza la realtà dei fatti. Negli ultimi anni, già prima del Covid, soprattutto in Emilia, sono stati ingaggiati tanti infermieri, soprattutto dal Sud, perché lì diverse Regioni erano in piano di rientro. Ma il costo della vita a Bologna è molto alto e diversi professionisti preferiscono avvicinarsi o tornare nei luoghi d’origine perché non ce la fanno ad arrivare a fine mese con affitto e bollette da pagare.
Inutile negare che, a fronte delle uscite, non esiste assolutamente un piano di assunzioni capillare, anche perché i bandi dei concorsi regionali vanno praticamente deserti: è come un cane che si morde la coda, la ragione è sempre la stessa. Le proposte economiche rispetto alle responsabilità sulle spalle di questi professionisti vengono ritenute decisamente inadeguate.
A monte, continua De Palma, quindi, la motivazione principale legata a questa drammatica fuga è la triste condizione delle retribuzioni dei nostri infermieri. Se poi aggiungiamo i disagi che da sempre il nostro sindacato denuncia, come disorganizzazione, turni massacranti, l’essere spesso addirittura costretti ad accumulare ferie su ferie a causa della carenza di colleghi, senza poter esercitare il legittimo diritto ai riposi periodici, fondamentale per un indispensabile recupero psico fisico, si comprende bene come una parte di questi professionisti decida di lasciare addirittura la professione, oppure di optare per l’apertura di una partita iva come libero professionista. La triste realtà delle ferie negate non è certo una novità ma rappresenta l’apice di un tortuoso percorso che ci ha condotti, tutti, in un vicolo cieco.
Aumenta, di netto, giorno dopo giorno, la voragine di operatori sanitari: chi resta sul campo deve sopperire alla pericolosa mancanza di colleghi e soprattutto è a rischio, molto spesso, la funzionalità e la vita degli stessi reparti chiave, a causa della penuria di personale. Non è certo una novità che sono molti i reparti che vengono accorpati, con tutte le conseguenze del caso per la qualità dei servizi sanitari offerti ai cittadini.
Di base, dice ancora De Palma, la professione infermieristica, con situazioni organizzative di questo tipo, continua a perdere di appeal agli occhi dei giovani che dovrebbero scegliere i nostri percorsi di studio: questo lo dimostrano i recenti dati della Liguria.
L’ateneo genovese, al corso di scienze infermieristiche, si troverà per la prima volta ad avere più posti, 460, rispetto ai 448 candidati per accedere al corso di laurea: numeri che ci dicono, senza mezzi termini, che siamo di fronte ad una situazione che rischia di diventare senza ritorno.
La risposta della politica? I dati dell’Ufficio Statistiche del Ministero della Salute, aggiornati al 2021, in merito al numero reale di operatori sanitari dipendenti del nostro SSN, dicono che, c’è stato un flebilissimo aumento di assunzioni, poco più del 2%. Manca quindi, ancora, quel tanto decantato piano di investimento sulle risorse umane, che di fatto pare non essere arrivato nemmeno in piena emergenza sanitaria», conclude De Palma.