Provo, allora, a fare degli esempi. Non conosco chi ha avuto modo di leggere la nota inviata dall’Autorità di gestione del Programma Operativo Nazionale, che ha autorizzato ad avviare i progetti su “Laboratori green, sostenibili e innovativi, per le scuole di secondo grado”.
Si tratta di un vero e proprio manifesto di comunicazione in burocratese, come quei tanti che intasano le presidenze delle scuole di ogni ordine e grado, capaci solo di sottrarre, con la modulistica cervellotica che ne discende, ogni entusiasmo anche al più entusiasta insegnante. Per interpretare questi oscuri provvedimenti non è sufficiente ricorrere alla più elegante interpretazione biblica, neppure utilizzando le più accreditate tecniche cabalistiche.
La “scuola delle competenze” finisce, così, per perdersi nei rivoli incontrollabili di programmi, di “portfoli”, di moduli da riempire, sottraendo tempo allo studio, al rapporto umano tra docenti e discenti e alla crescita culturale di questi ultimi. In questo contesto anche il tanto agognato raccordo con il mondo del lavoro finisce per restare un “mito”, soffocato dai PON, dai POF, dai Framework della Next Generation Class Room, per non ricordare le famose sedie a rotelle del periodo del Covid.
Nessuno sembra rendersi conto della inutilità di investire nella digitalizzazione quando nelle scuole a rischio sismico non funzionano neppure i bagni. Se il punto della Scuola 4.0 (la magia delle parole che ha assistito la c.d. riforma del Ministro Bianchi) è la trasformazione fisica dell’ambiente scolastico, con la conseguente rivoluzione della didattica, per non “sbandare” il Ministeri dovrebbe domandarsi in quali luoghi ciò possa concretizzarsi, specie quando il territorio nazionale non è neppure assistito da reti internet efficienti e quando alcune aule cadono a pezzi.
Invece di procedere ad un recupero del patrimonio dell’edilizia scolastica, una buona parte dei fondi del PNRR finiranno per finanziare piattaforme personalizzate, schermi interattivi, connessioni virtuali, che finiranno per sostituire i “libri”, cioè quel “materiale solido” su cui è stato versato, con un certo successo, il sudore di tante generazioni passate.
Si afferma, in tal modo, una conoscenza “liquida” in un mondo altrettanto “liquido”, il quale non offre una risposta ad una domanda essenziale: “Qual è l’istruzione che dobbiamo somministrare?”. L’idea di un nuovo mondo digitale, ricco di Intelligenza artificiale ma povero di intelligenza cognitiva finisce per vanificare il “tempo scuola”, dato dalla condivisione personale e empatica, mettendo a rischio l’apprendimento di una serie di materie, non solo umanistiche, che richiedono una interiorizzazione lenta e progressiva.
Ciò fa il pari con la de-funzionalizzazione della missione degli insegnanti, sempre più annichiliti nel sintagma neutro e vuoto della “funzione docente”, i quali sono costretti a rincorrere la esasperata programmazione ministeriale (con sciagura valorizzata in alcune sentenze dei giudici amministrativi, che sovvertono il risultato valutativo del merito scolastico) oppure nuovi modelli produttivistici che non sempre significano “formazione matura”.
Nessuno vuole ritornare alla scuola del libro “Cuore”, ma neppure può ritenersi che le “umani sorti e progressive” possano distruggere il patrimonio culturale della scuola italiana, un tempo “forma” educativa presa ad esempio da altri Paesi.
In ogni percorso innovativo, come richiesto dai tempi moderni, le Istituzioni dovrebbero utilizzare la virtù della pazienza e il dono dell’intelligenza, ma non riesco a riconoscere questi tratti distintivi nelle innumerevoli circolari e decreti ministeriali (tra loro finanche contraddittori) che affollano la recente legislazione scolastica.
Giuseppe Fauceglia