La condanna agli eccidi di Hamas del 7 ottobre è netta, a distinguersi dalla risoluzione ONU (ci torniamo appresso).
Netta è la comprensione per il diritto di Israele alla rappresaglia, il diritto bellico contempla infatti la reazione purché proporzionata all’offesa. La proporzione significa che vanno salvaguardate le sorti dei civili. Il richiamo alla formula sacramentale due popoli – due stati è d’obbligo ed è volta soprattutto all’Autorità Palestinese (AP), cui si imputa il compito di costruire lo Stato di Palestina. Non è una novità: l’Unione si è sempre attenuta a questo schema, risalente agli Accordi di Oslo dei primi Novanta.
Il messaggio cerca di collocare l’Unione nella posizione mediana che più le aggrada perché appiana le divergenze interne. E’ inevitabile l’occhio di riguardo verso Israele, in quanto parte aggredita. Il terrorismo islamista è un pericolo generale, i suoi cascami colpiscono l’Europa. Ne è prova la stessa Bruxelles che ospita il vertice, per non parlare della Francia, il teatro prediletto dell’attentato “fait maison”, fatto in casa.
Il punto saliente del comunicato europeo riguarda la riapertura di credito all’Autorità Palestinese , nello sforzo audace di distinguere fra i Palestinesi amministrati dalla AP e dal Partito Fatah ed i Palestinesi amministrati da Hamas. Estromettere Hamas da Gaza, ripristinare il potere dell’AP nella Striscia, riannodare il negoziato con Israele, evitare il dilagare della crisi in conflitto regionale.
Le milizie sciite e filo-iraniane in Libano, Siria, Iraq, Yemen sarebbero pronte a dare man forte ai Palestinesi di Gaza se l’intervento via terra dovesse varcare una certa soglia e tracimare in massacro della popolazione. Il poderoso apparato americano, con due portaerei e migliaia di soldati, dovrebbe scoraggiare i colpi di testa, ma l’evolversi dei conflitti è sempre imprevedibile.
Il moltiplicarsi degli insediamenti ebraici in Cisgiordania rende impossibile la continuità territoriale dello stato palestinese, sempre che gli insediamenti non siano dichiarati parte integrante dello Stato d’Israele o sgomberati con la forza. Il precedente fu quando il Premier Ariel Sharon decise di abbandonare Gaza e sfrattò i coloni in malo modo. Allora si trattava di qualche migliaio di persone, ora si tratta di centinaia di migliaia con una rappresentanza nel Governo di destra – destra.
Il Gabinetto di guerra a Gerusalemme non è lo stesso del Governo precedente il 7 ottobre 2023, ha natura provvisoria, dovrebbe durare finché dura l’emergenza bellica. Al suo interno figurano il Primo Ministro ed il Ministro della Difesa attuali, l’ex capo dell’opposizione, due non-politici, uno dei quali già Capo di Stato Maggiore della Difesa. A fine conflitto le posizioni di maggioranza e minoranza torneranno quelle di prima? Il Gabinetto Netanyahu affronterà la prova delle responsabilità per i fatti del 7 ottobre?
L’utopia distopica dell’Unione sta nella chiamata all’Autorità Palestinese. La leadership di Abu Mazen e Fatah non riceve il bagno elettorale dal 2006, le nuove elezioni sono sempre promesse e sempre rinviate, i sondaggi premiano Hamas.
Se questa poi si accredita come la sola parte capace di infliggere danni a Israele sul campo e mostrarne la vulnerabilità, il suo prestigio è destinato a crescere. E d’altronde per l’AP vincere le eventuali elezioni con l’aiuto delle forze armate di Israele, entrare simbolicamente a Gaza su un carro armato di Tsahal non sarebbe il giusto viatico per riacquistare la smarrita credibilità.
La risoluzione ONU sul conflitto vede gli stati membri UE in ordine sparso. Alcuni votano la mozione giordana, altri la respingono, altri infine si astengono. Fra questi ultimi è la delegazione italiana, che nel documento non trova l’esplicita condanna di Hamas. La decisione del Governo è criticata dall’opposizione di sinistra. La Segretaria PD avrebbe voluto il voto a favore e un appello ad una tregua, quale che sia. Per Israele la tregua sarebbe certificare la vittoria di Hamas.
di Cosimo Risi