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Make hummus not war (di Cosimo Risi)

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Fate l’hummus, non la guerra: è il titolo di copertina di Gambero rosso di dicembre. Non la carrellata dei dolci e dei piatti della tradizione natalizia, ma il cibo mediorientale per eccellenza. Così popolare da diventare da locale a globale. Esalta il glocal, al pari della pizza, degli spaghetti al pomodoro, del roast beef.

Chi sia stato in Medio Oriente, e ci abbia vissuto per qualche tempo, ha fatto scorpacciate di hummus. La crema di ceci secchi e tahini (passato di semi di sesamo) con sale, succo di limone, aglio si mangia assoluta oppure a contorno di altre pietanze.

Lo spuntino preferito, guai a chiamarlo street food, lo si serve nei chioschi seduti al banco, è la pitta spaccata e farcita di hummus e falafel, le polpettine di ceci, il tutto accompagnato dalla bevanda analcolica d’ordinanza. A volte il succo di melagrana, a volte la spremuta di limone con le bucce frullate e il gambo di menta. On the rocks, senza esagerare con il ghiaccio per non annacquare la bibita.    Il limone sgrassa con l’acidità, la menta conferisce il profumo vegetale, il ghiaccio ammorbidisce e allunga. Il bicchiere è quello alto da long drink.

L’hummus domina le carte dei ristoranti mediorientali. Divide gli chef ed i gastronomi. Trattandosi di Medio Oriente, la disputa sconfina nella politica e nella religione.

Il nodo riguarda la paternità. Chi l’ha inventato? A chiedere ad una studiosa israeliana risalirebbe al Libro di Rut della Bibbia ebraica, il moderno Israele l’avrebbe ereditato e aggiornato al gusto corrente. I colleghi palestinesi replicano che l’hummus era diffuso  all’epoca dell’Impero Ottomano, ben prima che lo Stato d’Israele si costituisse nel 1948, gli Israeliani se lo intestano per nazionalismo culturale.

L’hummus del nostro supermercato, anche in versione bio, è prodotto in Grecia. La Grecia è, con Cipro, la cerniera fra Europa e Medio Oriente.

Un gruppo di imprenditori libanesi ne chiese la denominazione geografica protetta, asseriva che il Libano è la culla della cucina mediorientale, l’hummus gli appartiene di diritto. La richiesta non fu accolta. Gli appassionati riconoscono che la libanese è l’enogastronomia di riferimento. Il vino migliore è prodotto dalle loro parti, reca in etichetta la dicitura Château, la sapienza enoica viene dalla Francia. Qualcosa di simile accade sulle Alture del Golan, una volta siriane e ora israeliane: i vitigni sono i francesi d’origine, Chardonnay, Sauvignon, Pinot.

L’articolo di Gambero rosso ricostruisce l’amicizia e la collaborazione fra Sami Tamimi e Yotam Ottolenghi. Ambedue gerosolimitani, il primo di Gerusalemme Est, la parte araba, il secondo di Gerusalemme Ovest, la parte ebraica. Ambedue custodi della pratica dell’hummus, oggetto del loro ricettario Jerusalem. Ambedue chef: non a Gerusalemme. La collaborazione, per non dire l’amicizia, fra due esponenti di popoli che devono odiarsi, sarebbe impossibile in quel luogo. Peggio: socialmente disdicevole.

Il loro ristorante si trova a Londra, la capitale del Regno Unito che tenne il Mandato sulla Palestina fino alla Seconda Guerra Mondiale. L’inglese resta lingua veicolare a Gerusalemme, benché sia l’arabo che l’ebraico siano praticati nello Stato d’Israele. La lingua terza della potenza mandataria è neutrale. E’ il pregio dell’inglese, l’essere scremato da croste nazionalistiche, ciascuno lo parla alla sua maniera.

Trovare il bandolo della crisi mediorientale nell’hummus e nel cibo in generale pare paradossale. Specie ora che il principale esercizio a Gaza è cercare da mangiare e da bere per il bisogno primordiale di nutrirsi.

In Medio Oriente alcuni prodotti sono banditi. La carne suina, l’alcol, il pesce senza lisca. All’indirizzo giusto si trovano prosciutto, crostacei, molluschi, vino. Nella confusione levantina  si fa quel che si può e quel che non si può.

L’hummus è presente ovunque, è servito nella pitta a libretto come la pizza nei Quartieri, che se non stai attento ti cola addosso, lo raccolgono i commensali tutti assieme dal piatto di portata facendo la scarpetta.       E’ piatto trasversale e così unitario che andrebbe imposto come dieta ai belligeranti.

Da eleggere a cibo eponimo all’Expo di Riad, invece di una malintesa cucina internazionale. E se durante la manifestazione l’Arabia Saudita sospende le esecuzioni capitali e liberalizza l’abbigliamento femminile, il merito andrà anche al cibo di origine libanese. Il Libano resta il luogo del sincretismo culturale.

di Cosimo Risi

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