Sul tema ha indubbio rilievo la spesa per l’istruzione che in Italia è del 4,2% del Prodotto interno lordo, mentre negli altri Paesi OCSE si aggira intorno al 5,1%; il salario reale nella scuola secondaria inferiore è aumentato nei Paesi OCSE dell’1% annuo a far data dal 2015, mentre in Italia è diminuito dell’1,3% nello stesso periodo, così riducendo l’attrattività verso l’insegnamento, anche in costanza di una prassi che vede i docenti più impegnati in attività burocratiche che di reale insegnamento.
A questo bisogna aggiungere i risultati negativi dell’Invalsi, che registrano un netto divario tra le aree geografiche del Paese e una costante decrescita dell’apprendimento, aggravata dai ritardi conseguenti alla ancora lontana ripresa educativa dopo il Covid.
L’istruzione pubblica, in totale controtendenza rispetto ai risultati raggiunti dalla lontana riforma Gentile e dalla successiva riforma Sullo, ha finito per perdere la sua funzione, finanche quella di ascensore sociale, sì che, pur in presenza di uguali condizioni di partenza degli alunni nel Nord e nel Sud dell’Italia, non si riescono a garantire i medesimi risultati scolastici.
Vi è che oggi buona parte degli alunni provenienti dalle classi più agiate, si recano all’estero per completare i loro studi o si dirigono verso rinomati istituti privati, con buona pace dell’eguaglianza educativa, che per anni ha rappresentato la caratteristica, invidiata da tanti altri Paesi, del nostro sistema scolastico.
In questo modo, in una prospettiva più generale, si rischia di vanificare l’occasione, offerta anche dai fondi del PNRR, di migliorare il sistema scolastico, che presenta i seguenti numeri (che traggo da una riflessione di Sabino Cassese sul “Corriere della Sera”): 800.000 alunni nelle scuole paritarie, 7,2 milioni nelle scuole statali, con 200.000 personale tecnico-amministrativo, 700.000 insegnanti di ruolo, 170.000 supplenti annuali o temporali, 50.000 di altro personale.
A fronte di questo complesso ed articolato quadro, si inserisce la progressiva denatalità, con la conseguente riduzione delle iscrizioni, da cui discende il piano di dimensionamento, che trova origine nelle opzioni dei precedenti governi, ma che, comunque, rappresenta un’emergenza da gestire con competenza ed attenzione.
A fronte di iniziative virtuose messe in campo da alcuni Comuni, che hanno indetto specifiche conferenze di servizi tra dirigenti scolastici e famiglie, altre se ne registrano, non certamente dello stesso valore, e tra queste quella di recente assunta dal Comune di Salerno.
Non vi è dubbio che il dimensionamento non riguarda solo i dirigenti scolastici, involgendo il fenomeno la stessa presenza delle istituzioni scolastiche in contesti sociologici afflitti da un certo grado di criticità, in cui il rapporto dialogico tra scuola e famiglia deve presentarsi costante e stretto da un significativo legame territoriale.
Se questo è, qualsiasi opzione avrebbe dovuto comportare una consapevole mappatura delle necessità emergenti, ad esempio muovendo dalla salvaguardia delle autonomie di quei plessi che presentano un maggior numero di iscritti e che operano in contesti particolari; dappoi favorendo l’accorpamento tra istituti vicini e non optare per lontananza di plessi (come a Salerno è accaduto per la “Matteo Mari” e la scuola “Barra”); ed ancora, procedere ad eventuale accorpamento di scuole prive del dirigente titolare, così da salvaguardare nel possibile le titolarità esistenti.
Per assolvere con efficienza e competenza, nonché per meritarsi l’indennità di assessore all’Istruzione (che secondo le tabelle 2022 del Comune di Salerno, è pari ad euro 57.415,92 per ogni anno), non è sufficiente partecipare a qualche convegno o assicurare la preferenza verso alcune esigenze ritenute – pur in assenza di effettiva trasparenza delle stesse – prioritarie, ma è necessario conoscere ed assumere con consapevolezza scelte efficienti e, il più possibile, condivise.
Per lungo tempo, a parte i recenti disastri, come dimostrano plurime determinazioni “rivedute” e “corrette”, l’assessore cittadino del ramo sembra più assumere il ruolo di un personaggio di “Chi l’ha visto”, piuttosto che il promotore di quella politica dell’istruzione, in ordine alla quale devono misurarsi, nel contesto locale e per le relative competenze, anche le scelte del Comune. Diversamente, sorgerebbe spontanea una domanda, alla quale per altro non riesco ad offrire un’adeguata risposta: “a che serve un assessore comunale e perché retribuirlo per le sue funzioni?”.
Giuseppe Fauceglia
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