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In missione da Xi (di Cosimo Risi)

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Ha stravinto le ennesime elezioni presidenziali, rimaneggiato la squadra di governo nella casella chiave del Ministero della Difesa, confermato il riluttante Ministro degli Esteri. Sta vincendo, ma non troppo, la campagna di Ucraina. Ha bisogno della legittimazione internazionale che gli manca dal fatale febbraio 2022.

Il solo a poterla dare a Vladimir Putin è il quasi amico Xi jinpeng. Non che la Cina sia ostile alla Russia. Al contrario, la Russia è divenuta la principale fornitrice di idrocarburi  a prezzi calmierati.

Il territorio racchiude ricchezze pregiate per l’economia cinese in cerca di alimenti. Gli spazi disabitati sul lungo confine comune fanno gola ad un paese stretto fra montagne, mare e sovraffollamento.

Sono vari e fondati i motivi alla base della missione di Putin a Pechino, in compagnia di Sergej Lavrov, visibilmente stanco e desideroso, non ne fa mistero, di cambiare mestiere e probabilmente paese, per ritrovare quel mondo anglosassone che tanto gli ha dato in carriera e soddisfazioni.

L’amicizia eterna fra Cina e Russia è un artificio diplomatico per significare che, allo stato, le due potenze hanno forti motivi d’intesa. Sia pure nel quadro di rapporti sbilanciati. Il commercio russo si è riorientato verso la Cina e l’Asia in generale, dopo che i mercati occidentali si sono chiusi con le sanzioni. Il commercio cinese verte ancora sull’Ovest. La quota russa cresce, ma è residuale rispetto al resto.

La convergenza è d’interesse contingente. Aprire le relazioni internazionali alla nuova dottrina del multipolarismo. Per limitare, fino a surclassarla, l’egemonia del cosiddetto pensiero unico occidentale: quello delle democrazie liberali, con il loro apparato ideologico e la loro forza di persuasione.

Il convitato di pietra del dialogo Putin – Xi è temporaneamente Joe Biden, nell’attesa di cosa accadrà a novembre. Allora l’intesa potrebbe incrinarsi. Mentre il russo anela al ritorno di Donald Trump, il cinese teme di Trump la svolta nazionalista che già impresse durante il precedente mandato. I Democratici sono idealmente aperti alla globalizzazione, i Repubblicani tendono alla chiusura del “Buy American” o “America First”.

Finché gli Stati Uniti sono impegnati su vari fronti, la loro attenzione all’Indo-Pacifico (vedi Taiwan) è meno vigile. A quei mari dovrebbero badare gli alleati dell’area: il Giappone in via di militarizzazione con un processo speculare a quello tedesco, la Corea del Sud, le due potenze dell’anglosfera come Australia e Nuova Zelanda, sempre pronte ai richiami di Londra.

La politica estera americana è dominata dal caso Israele. Gli umori degli elettorati arabo e ebraico influiscono sul voto, i candidati sono attenti a coglierli. Biden punta a bilanciare il tradizionale sostegno a Israele con la critica ai metodi spicci con cui il Primo Ministro ed i suoi alleati di destra affrontano la crisi di Gaza. In questo modo spera di salvare il rapporto con Gerusalemme e, insieme, tutelare la dimensione umanitaria dell’Amministrazione democratica.

Netanyahu non lo asseconda. Sia per l’intima convinzione che Hamas e sodali vanno battuti ora o mai più, sia per tenere in piedi la coalizione. In seno al Gabinetto si moltiplicano le voci critiche, non casualmente pronunciate da ex Generali. Gantz, Eisenkhot, ora Gallant, che è Ministro della Difesa, accusano il Premier di non avere una visione politica per il dopo-Gaza.

Gantz minaccia di lasciare il Gabinetto se per giugno non emerge un piano politico per la Striscia: si deve profilare una soluzione internazionale per amministrarla in attesa di elezioni generali dell’Autorità Palestinese. Dunque: no al controllo militare da parte delle IDF né al ritorno dei coloni, si ad una coalizione mista di europei e arabi per la transizione. Ed infine la richiesta più impegnativa: tutti i cittadini di Israele devono prestare il servizio di leva, compresi gli ultraortodossi, finora esentati per lasciarli ai loro studi teologici.

Quello di Gantz appare già un manifesto elettorale per coagulare il fronte di centro-sinistra già impegnato nella critica alla riforma della giustizia. Un manifesto in linea con l’Amministrazione americana  e per elezioni anticipate che si vorrebbero tempestive.

L’incidente al Presidente Ebrahim Raisi di Iran ed al suo Ministro degli Esteri incupisce ancor più il panorama regionale. Si indaga sulla loro sorte e sulle cause.

di Cosimo Risi

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