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Qualche riflessione serena sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario

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Il tema che vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori è complesso, presentando rilevanti profili tecnico-giuridici, ed in quanto tale deve essere sottratto dallo scontro tra “talebani”, che si accende in occasione degli appuntamenti elettorali.

Confesso che non mi piacciono le riforme a ridosso delle elezioni, perché corrono il rischio di essere utilizzate come manifesto di propaganda, così come non mi piacciono le inchieste ad orologeria. In ogni caso, prima di dare un giudizio complessivo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e sulla separazione delle carriere, vorrei attendere la definitiva approvazione del testo da parte del Parlamento, posto che lo stesso Governo ne ha anticipato miglioramenti e integrazioni.

Proprio per questo, le mie brevi osservazioni si limitano a considerazioni molto generali. Agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, grazie al contributo determinante dell’allora Ministro della Giustizia, il prof. Giuliano Vassalli, grandissimo giurista ed eroe della Resistenza romana, il processo penale che ancora era regolato dal codice varato durante il Fascismo e che era intriso da una concezione autoritaria delle indagini e del processo, nota come “sistema inquisitorio”, venne radicalmente riformato, ispirandosi al diverso “sistema accusatorio”, sulla scorta dell’esperienza di molti ordinamenti di Paesi giuridicamente e culturalmente più evoluti e democratici, specie di tradizione anglosassone.

Nel contesto del processo penale “accusatorio”, la pubblica accusa (rappresentata dal Pubblico Ministero) e la difesa dell’imputato avrebbero dovuto operare su un piano di sostanziale parità, anche in ordine all’acquisizione delle prove, laddove la norma prevedeva addirittura che la pubblica accusa dovesse acquisire non solo gli elementi probatori “a carico” dell’imputato (quelli, cioè, ritenuti idonei a conformarne la colpevolezza), ma pure quelli “a discarico” (quelli, cioè, idonei ad escluderne o limitarne la colpevolezza).

Da ciò la conseguenza che nel dibattimento innanzi ad un Giudice “terzo”, che deve pronunciare la sentenza, quel complesso probatorio, raccolto dall’accusa e dalla difesa, avrebbe dovuto essere acquisito nuovamente ed opportunamente vagliato nel contraddittorio tra le parti.

Orbene, l’esperienza quotidiana di qualsiasi avvocato in questi decenni ha potuto verificare in gran parte dei casi la mancata applicazione della “spirito” di quella riforma, constatando la contiguità, a volte anche ambientale, tra pubblica accusa e giudice, nonché l’osmosi valutativa tra il risultato delle indagini e la sentenza.

Allora, in questo contesto, non resta che condividere quanto affermato dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, secondo il quale la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri costituisce un importante passo in avanti verso il giusto processo previsto dall’art. 111 della Costituzione, perché tende ad assicurare l’equidistanza tra accusa e difesa e attribuisce la decisione ad un giudice che deve apparire e deve essere “terzo”.

Se così è, mi paiono fuori luogo le violenti critiche dell’on. Debora Serracchiani, che parla di un attacco alle istituzioni repubblicane, innanzi tutto perché l’art. 111 della Costituzione, al quale la riforma intende ispirarsi, resta regola fondante dei principi dell’ordinamento processuale costituzionale, dappoi perché la separazione delle carriere non importa la perdita di autonomia e di indipendenza del Pubblico Ministero, confermata dall’obbligatorietà dell’azione penale, né dalla riforma può farsi discendere una diminuzione della cultura giurisdizionale della pubblica accusa, che mi pare dover essere affermata nei “fatti” piuttosto che nelle petizioni di principio.

Non considero, poi, le critiche dell’on. Giuseppe Conte, che con tutta evidenza ha completamente dimenticato le nozioni giuridiche apprese nel corso della sua precedente “vita” di professore e di avvocato (il potere fa brutti scherzi!), il quale parla addirittura di “mordacchia” che il Governo vorrebbe imporre alla magistratura.

Insomma, in Italia, sempre divisa tra guelfi e ghibellini, da una parte emerge un vero e proprio blocco conservatore, che non intende porre mano ad un sistema giudiziario in crisi evidente di credibilità oltre che di efficienza, e, dall’altro, un blocco (rappresentato, per altro, da un Ministro della Giustizia che è un ex magistrato) che, sia pure tra incertezze e incompletezze dispositive, intende procedere in riforme, senz’altro migliorabili, ma sicuramente necessarie.

Riprendendo riflessioni di qualche magistrato che ho potuto leggere in questi giorni, mi pare poco costruttiva anche la posizione dell’Associazione Nazionale Magistrati, dovendo, pur nella mia modestia valutativa sempre confutabile, ricordare che quando un organo costituzionale non ha né la forza né la volontà di “autoriformarsi” o di proporre riforme, risulta irrimediabile l’intervento della politica, alla quale è attribuita proprio la funzione di “fare le leggi”. Il fatto, poi, che venga paventato addirittura uno sciopero dei giudici mi pare un “non senso”: è come se scioperassero i parlamentari o i componenti del Governo.

Si finirebbe, in tal modo, per incidere significativamente proprio sulla natura di organo o potere che la Costituzione assegna alla magistratura, riducendo i giudici alla stregua di pubblici impiegati che seguono le indicazioni e le rivendicazioni di un qualsiasi sindacato.

Giuseppe Fauceglia 

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