Per altro, non si tratta neppure di un’assoluta novità, considerato che già Alcide De Gasperi, sia pure in un diverso contesto storico-politico, nel 1953 aveva avvertito l’esigenza di una riforma del sistema elettorale che garantisse, con un c.d. premio di maggioranza assegnato a partiti tra loro collegati, stabilità ai governi. Invero, pure a quel tempo il tentativo venne ferocemente avversato da partiti politici (in particolare, il PCI), i cui eredi, ora, insorgono con il medesimo impeto oppositivo contro il disegno di legge presentato dal governo.
Pur restando rilevante la distanza tra una riforma elettorale e una riforma costituzionale, è interessante notare come le parole d’ordine siano sostanzialmente le stesse: impedire l’attacco alla Costituzione più bella del mondo; avversare la scelta autoritaria in danno del sistema democratico.
Niente di nuovo sotto il sole!! Nell’attuale dibattito si aggiunge solo la denuncia dello svuotamento dei poteri (meglio sarebbe scrivere, delle prerogative) attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, anche se proprio quest’ultimo argomento mi pare privo di sostanziale rilevanza.
Innanzi tutto, l’impianto rinveniente negli artt. 83 – 91 della Costituzione resta invariato, se si fa eccezione alla nuova formulazione del 1° comma dell’art. 88, che – in ragione della originaria diversa durata, non più vigente a seguito della Legge costituzionale n.2/1963, tra Camera dei Deputati e Senato – prevede la possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere solo una delle due Camere, mentre la riforma richiede che lo scioglimento riguardi l’intero Parlamento, in aderenza al principio della contestualità rappresentativa.
Altra modifica, che mi pare davvero secondaria, è quella riguardante il 2° comma dell’art. 59 Cost., fatto oggetto di critiche specie nei due settennati del Presidente Napolitano a seguito dell’assunta alterazione della maggioranza rispetto agli equilibri con i componenti eletti a suffragio universale, laddove si esclude la possibilità di nomina di senatori a vita (che hanno le medesime prerogative di quelli eletti) e si prevede che detta qualità possa essere riconosciuta solo ai Presidenti emeriti della Repubblica.
In realtà, le novità maggiori si registrano, come già detto, in relazione al meccanismo di elezione diretta del Presidente del Consiglio, ciò comportando, di conseguenza, la nuova formulazione dell’art. 92 Cost., che, però, non conserva alcuna significativa valenza limitativa delle prerogative del Presidente della Repubblica, posto che egli non nomina più il Capo del Governo, ma si limita a conferire l’incarico al premier eletto.
Orbene, se l’art. 1, 2° comma, Cost. dispone che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, mi pare costituire conseguenza diretta che il risultato elettorale debba rappresentare il principio fondamentale che giustifica il conferimento dell’incarico – che dovrà pur sempre passare per la fiducia del Parlamento – di Presidente del Consiglio.
Mentre non può rinvenirsi una sostanziale incisione delle prerogative presidenziali nella previsione che il Presidente della Repubblica “nomina” i ministri su indicazione del Presidente del Consiglio incaricato, il quale dei primi deve avere la massima fiducia proprio per le funzioni da questi esercitate “dal” o “nel” Governo.
Pare, inoltre, che anche la disciplina riguardante lo scioglimento delle Camere resti coerente con l’impianto della riforma e non possa incidere sui poteri del Presidente della Repubblica, che deve sì garantire “l’unità nazionale” (espressione che assume valenza diversa rispetto a quella che gli oppositori alla riforma vorrebbero alla stessa assegnare), ma pur sempre in ragione del superiore principio della sovranità popolare (non a caso, assunto nell’art.1, quale cardine dei “principi fondamentali” della Repubblica).
Mi chiedo, allora, se sia stato rispettato questo principio quando il Presidente Scalfaro sollecitò l’intervento del Segretario di Stato Vaticano per vanificare il risultato elettorale del primo Governo Berlusconi oppure quando, con la nomina di Presidenti del Consiglio definiti (bonariamente) “tecnici”, è stato consentito ad un partito (il PD) uscito sconfitto dalle elezioni di essere presente nelle compagini governative per oltre un decennio.
Ora, pur considerando che il “popolo” è più propenso a scegliere Barabba che Gesù, e non omettendo riflessioni più approfondite sulla crisi di rappresentanza (che imporrebbe, finalmente, la fine di parlamentari “nominati” dalle segreterie o “cooptati” a volte senza specifiche competenze), non può essere svalutato che la riforma intende proprio privilegiare la diretta partecipazione del corpo elettorale alla scelta del Presidente del Consiglio, e questa non mi pare restare un’esigenza secondaria.
Giuseppe Fauceglia