Site icon Salernonotizie.it

Qualche riflessione sulla democrazia in difficoltà (di G. Fauceglia)

Stampa
Il progressivo sgretolamento della democrazia parlamentare per cause interne alle dinamiche dei partiti, e non già in dipendenza di riforme costituzionali, per quanto – nella sintassi delle dottrine politiche – i due fenomeni potrebbero concorrere sia pure in diversa misura, è stato già al centro di approfondimenti molto più articolati ed acuti di questa mia superficiale riflessione.

Basti pensare al volume che raccoglie due saggi del giovane Hans Kelsen, “Due saggi sulla democrazia in difficoltà (1920-1925)”, edizioni Aragno, la cui lettura può risultare utile anche per l’interpretazione del tempo presente. In questo contesto vorrei affrontare il fenomeno della disaffezione al voto o come la definisce Roberto Volpi, del “non voto”.

Invero, tutti i partiti, da Meloni alla Schlein, osservano sul tema un interessato e costante silenzio bipartisan e, facendo finta di niente, sembrano accogliere con piacere il futuro distopico in cui parteciperà al voto una ristretta minoranza priva di ogni valore rappresentativo.

Come sempre parto dall’analisi dei “fatti”. Alle elezioni politiche del 1953 si recarono ai seggi il 94% degli italiani, il dato in assoluto più alto di sempre, che nel corso dei successivi decenni ha conosciuto un costante, ma non eccessivo, decremento, sino alle elezioni politiche del 1996, quando la percentuale si attestò all’82,9%.

Nell’ultimo decennio di questo secolo si è, invece, registrata una significativa riduzione dei votanti: basti pensare che alle elezioni politiche del 2018 si sono recati ai seggi il 72,9% degli italiani, sino a vedere la riduzione di questa percentuale di circa 10 punti in occasione delle elezioni del 2022, alle quali hanno partecipato solo il 63,9% degli aventi diritto.

In realtà, dal 2009 al 2022 sono andati persi 17 punti in percentuale, e non a caso questo è il periodo dei governi cc.dd. tecnici ai quali hanno preso parte partiti (come il PD) uscito sconfitto dalle competizioni o dei governi pluricolorati (giallo-verde; giallo-rosa) che hanno dimostrato la loro palese insufficienza.

A fronte del contrasto anche “ideologico” (in senso lato), tipico dell’elettorato italiano, manifestato nel corso delle precedenti competizioni tra centro-destra a trazione berlusconiana e centro-sinistra a trazione PD, il corpo elettorale ha sembrato e sembra vivere un certo disincanto, quasi ritenendo l’inutilità del voto, in presenza della possibilità che il risultato delle elezioni possa essere travolto e disatteso a seguito degli interventi, più o meno pressanti, dei “poteri forti” (mi pare che per contrastare queste tendenze, il recente disegno di riforma costituzionale sul premierato contenga interessanti elementi di novità).

In realtà, però, i partiti politici (ma pure la c.d. élite intellettuale) non si sono mai inoltrati nell’analisi del “non voto” e nella sua interpretazione (qualche timido tentativo è stato fatto da Antonio Tajani nell’ultimo anno), perché ciò avrebbe significato procedere ad una analisi specifica della reale capacità della politica di toccare le corde giuste degli interessi veri, del sentimento e della stessa emotività degli elettori.

Credo che una prima ragione della disaffezione degli elettori risieda nel fatto che l’attuale sistema elettorale, con i suoi candidati “paracadutati” nelle più diverse realtà territoriali e scelti per cooptazione o per nomina diretta degli apparati nazionali dei partiti (frutto di un meccanismo che potremmo finanche definire “mercantile”), mortifica il rapporto rappresentativo con le comunità locali.

Ciò, come è possibile constatare con estrema facilità, comporta che una volta eletto il parlamentare si disinteressi completamente delle dinamiche sociali ed economiche del territorio, delle sue esigenze, insomma della domanda di “governo” proveniente dalla realtà periferica. Uno spazio vuoto, riempito come dimostra la nostra recente esperienza regionale, da una perniciosa tendenza autocratica ed autoreferenziale.

L’unico rimedio per ovviare a questa pericolosa tendenza, che manifesta una democrazia in difficoltà, è di mettere mano ad una riforma del sistema elettorale che ponga fine alle liste bloccate e al duplice meccanismo semi-maggioritario e proporzionale (apparente), ritornando al diverso sistema delle preferenze con liste “aperte” e con concorrenza paritaria dei candidati.

Certo, si tratta di un sistema che, soprattutto alla fine della c.d. prima Repubblica, ha dimostrato crepe e disfunzioni a tutti note, ma che pare restare ancora oggi l’unico idoneo ad assicurare una qualche valenza al rapporto elettori-eletti, in tal modo potendo consentire il recupero di quell’area del “non voto”, di cui innanzi si è detto.

Giuseppe Fauceglia    

Exit mobile version