Orbàn sta tessendo una tela, sua e del gruppo parlamentare dei Patrioti, che sconta il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Così presago o semplicemente speranzoso dell’avvento che già in marzo, e cioè prima della magra prova televisiva di Joe Biden, Orbàn si recò da Trump per consultazioni sul caso Ucraina.
Dopo la visita a Trump, investito dell’ambiguo ruolo di cui si è scritto, Orbàn si reca a Kiev per chiedere a Volodymyr Zelenskyj di accettare il cessate il fuoco in vista di un imprecisato negoziato di pace con la Russia. Il Presidente ucraino respinge l’idea, gli appare l’anticipo della capitolazione, resta fermo nelle pretesa che il cessate il fuoco sia possibile solo dopo che le truppe russe abbiano sgombrato le zone conquistate.
Orbàn non dà peso alla posizione ucraina nel correre da Vladimir Putin. E’ accolto con cordialità, finalmente un europeo ragionevole e non affetto da russofobia, il nuovo morbo che infesta l’Occidente, ma senza raccogliere quanto sperava. Putin reitera la proposta che il negoziato di pace sarà possibile solo se l’Ucraina accetta il sacrificio di quella parte di territorio conquistato o in via di conquista da parte russa.
La mossa dell’ungherese, apparentemente malaccorta, rivela uno certo stato d’animo presente in Europa, e non solo presso i Patrioti, ed in via di diffusione in America. Le probabilità che i Repubblicani vincano la battaglia di novembre induce tutti a ricalibrare le posizioni. Mai accada che gli Europei continuino a battersi dopo che gli Americani hanno sgombrato il campo. La lezione dell’Afghanistan nel 2021 è fresca.
Il risultato francese può attenuare la foga dei Patrioti? Un eventuale Governo del Fronte Popolare modificherà l’atteggiamento di Parigi verso l’Ucraina? Sono domande aperte, avremo una risposta nei giorni a venire. Va registrato il parallelismo fra quanto accaduto giovedì nel Regno Unito e domenica in Francia: lo spostamento dell’elettorato a sinistra dopo il voto largamente sovranista alle elezioni europee.
Trump è atteso anche in Medio Oriente. Il Premier israeliano pare sordo alle rivendicazioni degli oppositori e di parte degli apparati di sicurezza circa il dopo-Gaza. Il Ministro della Difesa minaccia gli Hezbollah in Libano. Le IDF sarebbero pronte a spostare i carri armati dalla Striscia al Nord di Israele: bisogna porre fine allo stillicidio dei lanci di razzi che hanno costretto decine di migliaia di cittadini a lasciare le case. Un numero così alto di sfollati interni non si era mai visto in Israele.
Sullo sfondo della possibile guerra di Libano è lo spettro dell’Iran. Il convitato di pietra che sostiene Hezbollah e gli altri gruppi sciiti fino a trasformarli in macchine da guerra così efficienti da insidiare lo Stato di Israele. L’inviato americano nell’area, dal significativo nome di Amos Hochstein, dichiara che gli Stati Uniti staranno comunque al fianco dello Stato ebraico in caso di conflitto. Un avvertimento a buon intenditore.
Il buon intenditore, per stare alla metafora, si sta insediando a Teheran. Il nuovo Presidente Masoud Pezeshkian è accreditato della patente di riformista moderato. Medico, già Ministro della Sanità con Mohammad Khatami, il vecchio Presidente riformista, l’ha spuntata contro il candidato ultra-conservatore. Suo è stato il voto di chi vorrebbe introdurre qualche cambiamento nel regime teocratico senza stravolgerlo.
I suoi margini di manovra sono inevitabilmente ridotti dal sistema bicefalo in vigore nella Repubblica Islamica. La decisione di ultima istanza spetta al potere religioso ed al Supremo Ayatollah. Pezeshkian si propone di migliorare i rapporti con l’Occidente per mitigare le sanzioni. Si vedrà se sarà capace di farlo e se l’Occidente risponderà di conseguenza. Un conflitto con Israele ostacolerebbe il processo.
di Cosimo Risi